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Riconoscimento prodotti ittici mediante DNA

Nella presente tesi si sono utilizzate tecniche bio-molecolari capaci di identificare e distinguere diverse specie ittiche, mediante l’impiego di DNA e di proteine, per sviluppare metodiche efficaci e riproducibili capaci di rafforzare, in tal modo, il controllo della filiera ittica e la tracciabilità di prodotti ittici.
Uno dei più importanti punti di forza del sistema produttivo italiano è rappresenta-to dall’elevata numerosità di prodotti tipici agro-alimentari. Questi sono 1.424 se ci si riferisce a prodotti ottenuti da alimenti di origine animale (D.M. 350/1999). Di questi 1.424 prodotti, 98 risultano essere dei prodotti ittici.
Limitandosi ai prodotti certificati DOP ed IGP, è possibile rilevare che l’Italia de-tiene il primato in Europa con ben 145 prodotti, seguita dalla Francia con 141, dal Portogallo con 93, dalla Spagna e Grecia con 84, dalla Germania con 67 e dal Re-gno Unito con 29 prodotti. Fanalini di coda per il numero di prodotti certificati, si trovano i paesi del Nord Europa tra i quali si ricordano i Paesi Bassi con 6 prodot-ti, il Belgio con 4, la Danimarca, Irlanda e Repubblica Ceca con 3, la Svezia con 2 e la Finlandia con 1 solo prodotto (dati Ismea).


Secondo recenti stime di Legambiente e della Confederazione Italiana Agricoltori l’Italia e la Francia sono i due paesi europei maggiormente colpiti dalla contraffa-zione di prodotti agro-alimentari che causano solo per l’agricoltura italiana una perdita stimata di 2,5 miliardi di euro all’anno.
Pertanto, la questione legata alla autenticità dei prodotti agro-alimentari, rappre-senta non solo una problematica di tipo legale ma anche una priorità economica che può essere affrontata ed in alcuni casi risolta con strumenti come quelli basati sull’applicazione di biotecnologie agro-alimentari per la tracciabilità genetica in-dividuale e di razza di prodotti alimentari.
In Italia, anche se nessun prodotto ittico ha ottenuto il marchio DOP/IGP, sono in ascesa il numero di prodotti in attesa di riconoscimento, sia all’esame nazionale che della Commissione Europea. Sei prodotti ittici sono attualmente in fase istrut-toria per il riconoscimento DOP/IGP: le acciughe sotto sale del mar Ligure, la bot-targa di muggine di Cabras (Oristano), i mitili del golfo di La Spezia, la tinca gobbata dorata del Pianalto di Poirino (Torino), la trota reatina (Rieti) e la vongola verace delle lagune di Caleri e della Marinetta (Rovigo). Anche i cosiddetti “Pro-dotti Agroalimentari Tradizionali”, definiti nel Decreto del Ministero delle Politi-che Agricole e Forestali del 18 Luglio 2000 (G.U. n. 194 del 21 agosto 2000) e successive modificazioni, potrebbero essere in un futuro, non lontano, candidati per un riconoscimento DOP o IGP in quanto sono prodotti che hanno metodiche di lavorazione, conservazione e stagionatura consolidate nel tempo, che seguono regole tradizionali. In questo caso, il Veneto ricopre una posizione di primo piano: essa, infatti, si posiziona al secondo posto, dopo la Calabria, con ben 19 prodotti elencati in Tabella 1.
Anguilla del delta del Po
Anguilla del Livenza
Anguilla marinata del delta del Po
Anguilla o bisatto delle valli da pesca venete
Branzino o spigola delle valli da pesca venete
Cefali delle valli da pesca venete
Cefalo del Polesine
Cozza di Scardovari
Gambero di fiume della Venezia orientale
Latterini marinati del delta del Po
Moeche e masanete
Moscardino di Carole
Pesce azzurro del delta del Po
Sardine e alici marinate del delta del Po
Schilla della Laguna di Venezia
Trota fario delle valli vicentine
Trota iridea del Sile
Trota iridea della valle del Chiampo
Vongola verace del Polesine
Tabella 1 Elenco dei prodotti tradizionali appartenenti alla Regione Veneto. Fonte: Decreto 22 lu-glio 2004 del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali (Suppl.Ord. n. 144 alla G.U. n. 193 del 18 agosto 2004; dati Ismea).

L’approccio analitico esposto nella presente tesi si colloca quindi in una realtà produttiva molto importante sia nel contesto nazionale che regionale (Veneto ap-punto).
Il settore ittico si caratterizza infatti per la presenza di un prodotto nazionale che copre solo parte dei consumi alimentari di pesce nelle famiglie (inferiore al 43 %), accentuando la dipendenza del mercato italiano di prodotti ittici dagli acquisti fuo-ri frontiera. In particolare, negli ultimi anni è aumentato il divario tra la produzio-ne italiana, nel 2003 scesa a 518 mila tonnellate (-9,8 % rispetto al 2002), e le im-portazioni di pesci, molluschi e crostacei, salite nello stesso anno a 794 mila ton-nellate (+16,2 % rispetto al 2002). A questi dati si aggiunga, inoltre, che attual-mente il consumo domestico italiano di prodotti ittici preparati, conservati e sec-chi, ammonta a quasi la metà del volume totale (48,6 % nel 2005, dati Ismea). Più di 1/3 dei prodotti ittici, dunque, risultano commercializzati sottoforma di prepara-ti o filettati dei quali può risultare difficile riconoscere l’origine e la provenienza da parte dei Servizi Veterinari. Essi sono chiamati a classificare anche le specie di provenienza extracomunitaria (attraverso la forma del prodotto, lo spessore e l’andamento di miomeri e di miosetti, il colore del muscolo, il colore e tipologia di eventuali residui di pelle o peritoneo rimasti adesi al muscolo, …), la cui somi-glianza morfologica con le specie mediterranee più apprezzate e più costose può costituire un presupposto per frodi commerciali; inoltre sempre più il consumatore richiede di accedere a prodotti sicuri dal punto di vista igienico sanitario e, soprat-tutto, “sicuri” riguardo alla provenienza e alle garanzie di manipolazione e gestio-ne con procedure atte a garantire qualità nell’ambito dell’intera filiera di produ-zione. Queste esigenze richiedono dunque, in virtù dell’ampia differenziazione dell’offerta di prodotto “lavorato” che caratterizza il mercato e della necessità di garantire il consumatore sotto l’aspetto della provenienza e qualità di processo di lavorazione, la creazione dei percorsi di tracciabilità all’interno della filiera, at-tualmente resi obbligatori per i prodotti ittici dal Regolamento Europeo 2065/2001 già recepito dall’Italia.
Lo sviluppo della biologia molecolare rappresenta un ambito di recente e forte in-novazione per la caratterizzazione genetica individuale. Su questa base è sicura-mente l’unico sistema per garantire una piena tracciabilità all’interno delle filiere dei prodotti animali.
Nel campo ittico, l’attuale identificazione delle specie nei prodotti trasformati, complicata dalle fasi di filettatura, porzionamento o macinazione che mascherano le caratteristiche morfologiche viene effettuata mediante un’analisi discriminante basata sulla tecnica di isoelettrofocalizzazione (IEF), che è in grado di fornire, per le proteine estratte da ogni specie ittica, un vero e proprio profilo tipico della spe-cie. La tecnica IEF è gia ampiamente utilizzata nel settore agricolo (Almgard et al., 1977) per una rapida identificazione di diverse varietà di piante cereali, come pure è stata utilizzata per analisi di uova, del latte e delle carni (Ilewellyn et al., 1976). Anche nel settore ittico sono stati proposti numerosi lavori di identificazio-ne di specie con questa tecnica. Tuttavia la metodica richiede, per i prodotti ittici, una ottimizzazione per essere utilizzata con profitto nella pratica della caratteriz-zazione differenziale. Inoltre diverse ricerche hanno evidenziato la validità dell’impiego di metodi basati sull’analisi dei frammenti di DNA per l’identificazione delle specie in prodotti ittici sterilizzati come ad esempio il tonno in scatola.

Etichettatura obbligatoria dei prodotti ittici e la tracciabilità di filiera
Al consumatore attuale, rispetto a quello di trenta anni fa, non basta che il pesce sia sicuro e sano, deve anche soddisfare le necessità nutrizionali ed essere salubre e saporito. Peraltro, giova ricordare che un prodotto sicuro non è necessariamente un prodotto di qualità: per essere di qualità deve avere qualcosa in più rispetto alla sicurezza, requisito stabilito per legge. Deve innanzitutto dare garanzie di sosteni-bilità, intesa come sostenibilità economica, biologica, coscienza delle risorse am-bientali, benessere animale: il consumatore si aspetta che il prodotto ittico, pesca-to o trasformato, segua le buone pratiche di pesca o di allevamento e di lavorazio-ne, con maggiore rispetto per l’ambiente e per il benessere animale. Inoltre i con-sumatori di pesce, così come i consumatori in generale, si aspettano di essere in-formati in maniera precisa e accurata sulla composizione, sul valore nutritivo, sul-la conservabilità, sull’origine e sul metodo di produzione.
I primi passi verso la tracciabilità del prodotto ittici sono stati fatti con il D. Lgs. 109/92 in attuazione delle direttive 89/395/CEE e 89/396/CEE concernenti l’etichettatura, la presentazione e la pubblicità dei prodotti alimentari; tale decreto è stato successivamente modificato in Italia dai D. Lgs. 259/2000 e D. Lgs. 181/2003 per quanto riguarda i prodotti sfusi, dai D. Lgs. 68/2000 e D. Lgs. 181/2003 (recentemente integrato con quanto disposto dalla Legge 204/2004) per quanto concerne i preconfezionati. In base al D. Lgs. 109/92, l’etichettatura del prodotto alimentare (ittico compreso) preconfezionato, deve fornire ai consumato-ri:
- la denominazione del prodotto, comprensiva dello stato fisico (fresco, congelato, surgelato),
- gli ingredienti in ordine decrescente di peso,
- il peso o contenuto netto,
- le modalità di conservazione e di consumo,
- la data di scadenza,
- il nome e indirizzo del produttore o distributore e una dicitura che consenta di identificare il lotto di appartenenza.
Inoltre, l’art. 1-bis della già citata Legge n. 204/2004 stabilisce che l’etichettatura dei prodotti alimentari “deve riportare obbligatoriamente, oltre le indicazioni di cui all’art. 3 del D. Lgs. 109/92, l’indicazione del luogo di origine o provenien-za”, ai fini della tutela del consumatore e di una maggiore trasparenza del marca-to, definendo per “luogo di origine o provenienza di un prodotto alimentare non trasformato” il paese di origine o eventualmente la zona di produzione, e per un “prodotto alimentare trasformato” la zona di coltivazione o di allevamento della materia prima agricola utilizzata prevalentemente nella preparazione o nella pro-duzione”. Con il D. Lgs. n. 531 del 30 dicembre 1992 (in attuazione della direttiva 91/493/CEE), relativo alle norme sanitarie applicabili alla produzione e commer-cializzazione dei prodotti della pesca, sono state introdotte una serie di informa-zioni cogenti per prodotti ittici, seppure non destinati al consumatore finale, ma diretti all’industria o ad intermediari commerciali per essere sottoposti a ulteriori lavorazioni. Nell’articolo 7 di tale decreto, infatti, si riporta che gli stabilimenti, le navi officina, gli impianti collettivi per le aste ed i mercati all’ingrosso, per opera-re devono avere un numero CEE di riconoscimento veterinario. Inoltre, si deve indicare sulla confezione o sul documento di accompagnamento (per i prodotti sfusi), il paese di spedizione e l’identificazione dello stabilimento o mercato ittico all’ingrosso o impianto collettivo per le aste o della nave officina o nave congela-trice attraverso il numero CEE di riconoscimento veterinario con la sigla CE o EC. Soltanto chi ha il numero di riconoscimento può avere scambi commerciali con i paesi esteri, altrimenti può lavorare solo nell’ambito del territorio nazionale. In questo modo è possibile identificare il prodotto di pesca o di acquacoltura an-che dalla sua presentazione commerciale perché provvisto di numero di ricono-scimento ufficiale dello stabilimento, nel caso del prodotto imballato, e di etichet-tatura in conformità al D. Lgs. 109/92, nel caso del prodotto confezionato. Solo negli ultimi anni però si giunge ad avere l’etichetta “ufficiale” o “obbligatoria” per i prodotti ittici freschi con il Regolamento (CE) n. 104/2000 del 17 dicembre 1999 e con la sua attuazione mediante il Regolamento (CE) 2065/2001 del 22 ot-tobre 2001. In Italia, poi, con il Decreto del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali del 27 marzo 2002 (G.U. n. 84 del 10 aprile 2002) sono state rese opera-tive le prescrizioni dei regolamenti europei, e sono state introdotte le sanzioni amministrative per gli inadempienti. Al fine di evitare una applicazione disomo-genea nei diversi comparti del settore ittico, ulteriori chiarimenti sono stati forniti, infine, dalla Circolare n. 21329 del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali del 27 maggio 2002.
Relativamente alle modalità di informazione ai consumatori, i regolamenti pre-scrivono che, dal 1° gennaio 2002, pesci e filetti di pesce, crostacei e molluschi vivi, freschi, refrigerati, congelati, secchi, salati o in salamoia possono essere posti per la vendita al dettaglio solo se provvisti di etichetta con:
- denominazione commerciale della specie (eventualmente l’operatore può indica-re anche la denominazione scientifica): il Decreto Ministeriale 27 marzo 2002 ri-porta in allegato A l’elenco delle denominazioni in lingua italiana delle specie itti-che di interesse commerciale, suddivise in pesci, molluschi bivalvi, molluschi ce-falopodi, crostacei, echinodermi; tale elenco è stato aggiornato con il D.M. del 1 gennaio 2004 (G.U. serie generale - n. 27, del 3 febbraio 2004), avente per ogget-to: “Denominazione in lingua italiana delle specie ittiche di interesse commercia-le”.
- metodo di produzione (“pescato”, “pescato in acque dolci”, “allevato”): per le specie pescate in mare lo Stato membro può autorizzare l’omissione del metodo di produzione a condizione che risulti chiaramente dalla denominazione commercia-le e dalla zona di cattura che si tratta di specie pescata in mare (ad esempio sardi-ne, acciughe, sgombri) a meno che ci siano dubbi sul metodo di produzione. Per i prodotti di acquacoltura è facoltà del venditore aggiungere alla dizione “allevato” quella di “prodotto di acquacoltura”.
- zona di produzione: in base all’articolo 4 del Reg. (CE) 104/2000, la zona di cat-tura comporta le seguenti indicazioni: per i prodotti pescati in mare, la menzione di una delle zone di pesca tra le zone FAO, eventualmente l’indicazione di una zona più precisa; per i prodotti pescati in acque dolci, la menzione dello stato membro o del paese terzo di origine; per i prodotti di acquacoltura, la menzione dello stato membro o del paese terzo in cui si è svolta la fase finale di sviluppo del prodotto (ovvero la fase che intercorre tra lo stadio giovanile e la taglia commer-ciale), o anche l’indicazione dei diversi stati membri o terzi di allevamento (se av-venuto in più stati).
Per i molluschi bivalvi e gasteropodi, le normative riguardanti la loro etichettatura (D. Lgs. 530/1992 e Reg. CE 2065/2001) tengono conto della complessità struttu-rale che ne caratterizza la filiera; nell’etichetta, infatti, vanno riportati: il paese speditore, la specie di molluschi bivalvi con la denominazione in lingua italiana e con la denominazione scientifica, l’identificazione del centro di spedizione o di depurazione per mezzo del numero di riconoscimento, la data di confezione ripor-tante il giorno e il mese, la data di scadenza o in alternativa la menzione “ i mollu-schi devono essere vivi al momento dell’acquisto”.
Il capitolo 3 (art. 8 e 9) del Regolamento (CE) 2065/2001, invece, è riservato alla “Tracciabilità e Controllo” e chiarisce che in ogni stadio della commercializzazio-ne le indicazioni obbligatorie ai fini della tracciabilità sono la denominazione commerciale, la denominazione scientifica, il metodo di produzione, la zona di cattura, indicati mediante l’etichettatura o l’imballaggio dl prodotto o un qualsiasi documento commerciale di accompagnamento della merce, compresa la fattura. Infine, le sanzioni: l’inosservanza delle disposizione relative all’etichettatura è punita con sanzione amministrativa pecuniaria prevista dall’art. 18, comma 3, del D. lgs. 109/92 e da successive norme.
Con il Regolamento (CE) n. 178 del 28 gennaio 2002 viene resa obbligatoria a partire dal 1° gennaio 2005 la rintracciabilità dei prodotti agro-alimentari e dei mangimi, in tutte le fasi della produzione, trasformazione e distribuzione. Ovvia-mente, dovendo gettare le basi e dare i principi generali della legislazione alimen-tare, l’Unione Europea è ricorsa ad uno strumento di portata generale, il regola-mento appunto, capace di istituire obblighi e diritti immediatamente vincolanti per tutti i destinatari della disciplina, senza necessità di un ulteriore intervento norma-tivo di recepimento da parte dei legislatori nazionali. In base a tale regolamento, i prodotti dovranno essere accompagnati da un sistema di tracciabilità che consenta in ogni modo di rintracciare un alimento o un mangime in qualunque fase o luogo esso sia, secondo il criterio “one step back, one step beyond”.
Per inciso, la rintracciabilità e la tracciabilità, termini simili ma di diverso signifi-cato, anche se spesso utilizzati come sinonimi, sono entrambi strumenti cui affi-darsi per veder garantita la trasparenza della filiera del prodotto. Entrambi, infatti, si riferiscono alla “capacità di ricostruire la storia e di seguire l’utilizzo di un pro-dotto mediante identificazioni documentate relativamente ai flussi materiali ed a-gli operatori di filiera”. Nello specifico con il termine di tracciabilità si intende il processo informativo che segue il prodotto dal principio alla conclusione (detto anche “da monte a valle”) del suo percorso lungo la filiera produttiva. Invece per rintracciabilità si intende il processo esattamente inverso, che permette quindi di risalire “da valle a monte” mediante le informazioni distribuite lungo la filiera. I due concetti sono pertanto da considerarsi complementari. In questo modo il con-trollo della filiera ittica garantisce il consumatore in ordine non solo alla storia generale del prodotto, ma anche sulle relative responsabilità dei produttori nelle varie fasi del processo produttivo (Ismea, 2005).

Metodiche analitiche a confronto
ISOELETTROFOCALIZZAZIONE (IEF) VERTICALE
Con questa tecnica le proteine vengono separate in un campo elettrico lungo il quale viene stabilito un gradiente di pH. Infatti, la loro separazione avviene sulla base del loro punto isoelettrico, che è il pH distintivo per ogni tipo di proteina, in cui la proteina stessa non ha carica netta. La regione anodica (+) corrisponde alla regione più acida e quella catodica (-) a quella più basica. Gli estremi di pH ven-gono scelti sulla base dei punti isoelettrici dei componenti da separare. Il principio su cui si basa tale metodo è la migrazione delle proteine in gel di poliacrilammide in funzione della carica della molecola, della sua massa e della sua forma. Il gel di acrilammide è costituito da un reticolo di maglie la cui dimensione permette una selettività secondo il peso molecolare della proteina: tanto più le molecole sono grandi, tanto più vengono rallentate nella loro migrazione. La separazione elettro-foretica è il risultato di due fenomeni:
- la migrazione delle molecole sotto l’azione di un campo elettrico a seconda della loro carica a un pH stabilito;
- la filtrazione di tali molecole attraverso le maglie del gel.
La separazione su gel di poliacrilammide delle diverse proteine avviene quindi in funzione del loro peso molecolare. Il gradiente stabile di pH tra gli elettrodi viene realizzato con una miscela di anfoliti a basso peso molecolare aventi punti isoelet-trici che coprono l’intervallo di pH desiderato. Presenti in vendita, possono copri-re un ampio intervallo di pH (da 3 a 10) o un intervallo di pH ristretto (da 4 a 5). La separazione può essere condotta o su colonna verticale o su lastra orizzontale di gel, utilizzando apposite apparecchiature disponibili in commercio (LBK, Bio-Rad e Amersham Pharmacia Biotech). L’isoelettrofocalizzazione, quindi, ha come caratteristica quella di permettere il riconoscimento di specie tramite l’analisi di pochi mg di muscolo (Tepedino et al., 2000). Tuttavia questa tecnica si limita ad una identificazione su prodotti freschi e tal quali. Le conserve o miscele come le insalate di mare, infatti, non possono essere sottoposte all’IEF in quanto le prime hanno subito un’alterazione termica, compromettendo la struttura delle proteine stesse; le seconde invece, consistendo in miscele di più prodotti, non si possono discriminare i singoli ingredienti rendendo, perciò, tale tecnica inutile.

PCR (POLYMERASE CHAIN REACTION)
Il principio alla base della reazione a catena della polimerasi (PCR) è stato intro-dotto nel 1985 con la pubblicazione del primo esperimento di amplificazione del DNA (Saiki et al., 1985). Da allora la PCR ha avuto un impatto via via crescente, inizialmente nell’ambito della biologia molecolare, approdando poi ad altre disci-pline scientifiche. All’inizio infatti la PCR rappresentava un’alternativa valida al clonaggio (Primrose et al., 2004); tuttavia, in seguito con il progredire e l’affinarsi della tecnologia stessa, essa diventa il punto forza per esplorare numerosi campi scientifici ed innumerevoli sono le sue applicazioni attuali.
Una delle applicazioni più interessanti è la possibilità di ottenere dei “molecular fingerprinting”, una impronta digitale molecolare di un organismo, che permette di distinguerlo da individui strettamente correlati dal punto di vista genetico.
Questa metodologia consente di sintetizzare ripetutamente in vitro e per via enzi-matica uno o più segmenti di DNA situati tra due sequenze nucleotidiche note, producendo un numero elevato di copie attraverso una serie di reazioni di denatu-razione del DNA, ibridazione dei primer (oligonucleotidi sintetici disegnati in funzione della sequenza del gene che si vuole ricercare, definendo il tratto genico da amplificare e fungendo da innesco per la polimerasi) e polimerizzazione dei nuovi filamenti.
Tale metodo richiede l’uso di uno strumento (Thermal Cycler) in grado di realiz-zare ripetuti cicli termici (Figura 1):
1) all’inizio di ogni ciclo il DNA viene denaturato ad una temperatura di 93-95 °C al fine di provocare la rottura dei legami idrogeno tra le basi azotate e la conseguente separazione dei due filamenti della doppia elica;
2) successivamente, con la fase di appaiamento dei primer al filamento del DNA, la miscela di reazione viene portata ad una temperatura più bassa che dipende dai primer usati; qui la Taq DNA polimerasi presente nel bat-terio Thermus aquaticus, (Lawyer et al, 1989) in presenza di deossiribonu-cleosidi trifosfati (dATP, dTTP, dCTP e dGTP) e alla temperatura di 72 °C, catalizza la sintesi di un nuovo filamento di DNA, complementare a quello di stampo, a partire dai primer.
Dato che i prodotti di un ciclo di amplificazione servono come stampo per la rea-zione successiva, alla fine di ogni ciclo viene duplicato il quantitativo di DNA presente e quindi con il passare dei cicli stessi il numero di copie aumenta in ma-niera esponenziale.
L’utilizzazione di questa tecnica presenta numerosi pregi quali la velocità, la sem-plicità e la selettività e questi hanno permesso di rendere la tecnica della PCR molto utilizzata per esaminare la struttura e la funzione di numerosi alleli diversi in campioni di DNA di dimensioni ridotte. Un problema della PCR è dovuto al fatto che la sua enorme capacità di amplificazione rende il sistema molto sensibile alle contaminazioni: anche una traccia di DNA estraneo può essere amplificata a livelli significativi, conducendo a risultati errati. Per questo motivo tutte le fasi, iniziando dall’estrazione del DNA dal campione, devono essere controllate e con-dotte in maniera precisa ed attenta.

SEQUENZIAMENTO AUTOMATICO BASATO SULL’ELETTROFORESI CAPILLARE
Il sequenziamento è il processo che permette di ottenere la sequenza di una pro-teina o di una molecola di acido nucleico. La sequenza del DNA è l’insieme di nucleotidi letti nel giusto ordine.
Il metodo di Sanger (Sanger et al., 1977), si basa sul principio della terminazione della catena di DNA di neosintesi tramite l’inserimento di dideossinucleotidi a li-vello di basi specifiche. La tecnica usa uno stampo di DNA a singola elica, un primer e una DNA polimerasi in modo da sintetizzare l’elica complementare. Il primer viene fatto appaiare al templato, successivamente la miscela di reazione viene divisa in quattro aliquote alle quali sono stati aggiunti deossinucleotidi trifo-sfato (dNTPs) e un dideossinucleotide trifosfato (ddNTP) per ognuna. Ogni volta che la DNA polimerasi incorpora un ddNTP, nessun altro dNTP potrà essere ag-giunto alla catena nascente poiché il ddNTP manca del gruppo ossidrilico in posi-zione 3’. Il rapporto di concentrazione tra i ddNTP e dNTP è tale che l’enzima terminerà la catena nascente in tutte le posizioni in cui il ddNTP potrà essere inse-rito, formando una serie di frammenti con lunghezza diversa aventi in comune lo stesso primer. I ddNTPs sono marcati in modo che, quando gli amplificati sono stati fatti separare in un gel di poliacrilammide, daranno origine ad un pattern di bande in grado di impressionare una lastra fotografica.
Uno dei più importanti sviluppi nel sequenziamento del DNA è stata l’introduzione di apparecchiature automatiche per l’elettroforesi e l’analisi dei prodotti di sequenza, portando alla costruzione di sequenziatori automatici basati sull’elettroforesi capillare. Il principio di funzionamento deriva dal sistema ideato da Sanger e, inoltre, in questi sistemi non è necessario versare e caricare il gel: il sistema carica automaticamente il capillare con un polimero, inietta i campioni nell’ordine specificato dall’operatore, esegue la separazione elettroforetica e ana-lizza i dati.
Il metodo attuale prevede una preliminare preparazione del campione di DNA di cui si vuole ottenere la sequenza amplificandolo tramite una variante della reazio-ne di PCR, denominata “cycle sequencing”. Questa, caratterizzata da alta tempera-tura e molteplici passaggi di denaturazione, permette di amplificare il DNA par-tendo da un unico primer in presenza di ddNTPs che bloccano la polimerizzazione a livello di basi specifiche. Nella miscela di reazione utilizzata per la PCR di se-quenza si inseriscono il DNA da sequenziare (corrispondente ad un preciso fram-mento del genoma), un singolo primer, la DNA polimerasi, deossinucleotidi e i dideossinucleotidi. Ad ogni dideossinucleotide è legato un determinato cromoforo che caratterizza la base a cui è legato. Come risultato dell’amplificazione si otterrà una serie di frammenti che condividono la stessa estremità iniziale ma ciascuno di essi risulterà sfasato di un unico nucleotide nella posizione finale. I campioni cosi preparati vengono introdotti nel sequenziatore e sottoposti ad un’elettroforesi ca-pillare. Per la sequenza risultante vengono usati marcatori fluorescenti molto sen-sibili e la fluorescenza dei frammenti viene rilevata man mano che questi si spo-stano lungo il capillare elettroforetico. Infatti, il capillare è irradiato da un raggio laser e la fluorescenza emessa è letta mediante una camera CCD (charge-couple device) ad altissima risoluzione (50 µm/pixel), che da origine ad un elettrofero-gramma.

METODO RFLP
Il termine RFLP è l’acronimo dell’inglese Restriction Fragment Lenght Polymor-phisms, ossia polimorfismo di lunghezza dei frammenti di restrizione.
Gli enzimi di restrizione tagliano il DNA in punti precisi, producendo dei fram-menti, che vengono detti “polimorfici”, perché in una popolazione ce ne sono di diversi tipi. Si chiamo polimorfismi infatti le differenze ereditarie che si trovano tra gli individui in una popolazione.
La tecnica utilizza la PCR in quanto, la regione del genoma di interesse viene am-plificata e i prodotti ottenuti vengono incubati con un enzima di restrizione in gra-do di riconoscere una sequenza specifica e di catalizzare una reazione di taglio al suo interno. Mediante elettroforesi su gel di agarosio si è quindi in grado di de-terminare se il frammento amplificato è stato tagliato o meno, cioè se la sequenza specifica riconosciuta dall’enzima è presente inalterata oppure no.
Alla fine si ha:
- una collezione di frammenti con lunghezza definita che possono essere separati per elettroforesi, con frammenti più piccoli che migrano più velocemente di quelli grandi.
- i frammenti possono essere rilevati con una sonda, una elica singola di DNA, complementare al alcuni tratti del DNA contenuti in uno o più frammenti, e che porta dei gruppi fluorescenti o radioattivi. Quando la sonda incontra un frammen-to complementare, vi si lega, rendendolo identificabile grazie alla fluorescenza o alla radioattività.
L’utilità di questa tecnica è quindi centrata sul fatto che è in grado di discriminare specie diverse osservando le diverse disposizione delle bande e dal loro numero (Meyer et al., 1995).

Attività di Ricerca
Le attività di ricerca svolte hanno riguardato lo studio di regioni specifiche dei genomi in specie di Bivalvi, Gadiformi e di Pleuronettiformi mediante marcatori molecolari. Una delle caratteristiche principali di tali marcatori è l’elevato poli-morfismo; essi identificano in modo semplice le mutazioni che si sono accumulate nel corso della storia evolutiva delle popolazioni sono neutrali e vengono pertanto utilizzati per valutare la variabilità genetica presente nelle specie e nelle popola-zioni. Inoltre, tramite i marcatori molecolari è possibile ottenere “un’impronta ge-netica” di ogni animale analizzato che permette di caratterizzarlo, individuarlo e di distinguerlo univocamente dagli altri individui della stessa specie.
Attualmente, i marcatori molecolari sono considerati estremamente interessanti e promettenti anche per la messa a punto di un sistema che consenta di assegnare l’individuo analizzato alla razza di origine. Tali metodi di identificazione possono essere applicati a partire da campioni di diversa natura, da tessuti prelevati dall’animale vivo o da prodotti da esso derivati (ad esempio la carne); la loro ap-plicazione consentirebbe il controllo dell’intera filiera produttiva garantendo dun-que l’origine di alimenti e prodotti destinati al consumo umano e animale.
In questa tesi, l’utilizzo di marcatori molecolari ha come fine l’identificazione de-gli organismi a livello di specie.
La scelta delle specie su cui sviluppare tale indagine ha interessato bivalvi, gadi-formi e pleuronettiformi di interesse commerciale per il mercato italiano. La Ri-vamar (Taglio di Po, Rovigo) ha fornito il materiale di partenza comprendente sia le specie di bivalvi, come prodotto sgusciato e surgelato, che le specie di gadifor-mi, questi ultimi disponibili sul mercato dopo la campagna di pesce dell’estate 2005 e commercializzati come prodotto filettato-porzionato sempre dalla Riva-mar. I campioni, invece, relativi alle specie di pleuronettiformi sono stati forniti da alcuni clienti della Chelab stessa.

SCOPO
Questa tesi ha lo scopo di confrontare sistemi diversi atti al riconoscimento di specie ittiche (IEF verticale secondo metodo “ufficiale” AOAC, Association of Official Analytical Chemists; RFLP e sequenziamento), con l’intenzione di svi-luppare metodiche analitiche per l’identificazione di specie ittiche basate su mar-catori molecolari a DNA e di dimostrarne la maggiore affidabilità in termini di ri-producibilità e capacità discriminante rispetto a tecniche di analisi su proteine..
In particolare per i bivalvi si sono analizzate le specie Meretrix lyrata, Meretrix lusoria, Meretrix meretrix, Mytilus chilensis, Mytilus galloprovincialis, Ruditapes philippinarum, Chamelea gallina e Paphia undulata. Per i gadiformi, le specie Gadus morhua, Gadus macrocephalus, Melanogrammus aeglefinus e Molva mol-va. Per i pleuronettiformi, infine, le specie Pleuronectes platessa, Solea solea e Platichthys flesus.




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