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Che guaio: gli statistici non sanno la biologia


Per l’elaborazione matematica dei dati sarebbe importante conoscere a fondo i problemi relativi. gra

L’articolo di Federico Peiretti su «Tuttoscienze» del 23 giugno ha messo in rilievo un problema importante e attuale: anche su riviste serie possono uscire articoli scorretti nei dati statistici poiché «gli scienziati non sanno la statistica». Ciò di solito è vero ma, almeno in campo biologico, è anche vero che sovente «gli statistici non sanno la biologia». Trovare un punto d’incontro non è semplice.
In generale la ricerca di base, che nella maggior parte dei casi si fonda su esperimenti di laboratorio, ha meno necessità della statistica e più della riproducibilità dell’esperimento (che, in realtà, è la stessa cosa). La ricerca clinica e quella antropologica - campi con i quali ho maggiore dimestichezza - hanno l’assoluta necessità di una statistica corretta e coerente con il problema in esame. Il modo più ingenuo di affrontare la questione è quello di utilizzare passivamente programmi statistici commerciali senza conoscerne a fondo il razionale, con lo scopo di far vedere ai revisore degli articoli che il problema dell’elaborazione dei dati è stato accuratamente affrontato. Ciò non può che essere fonte di errori, e non basta qualche corso per imparare a usare correttamente questi programmi. A un livello superiore, il clinico o l’antropologo possono rivolgersi a uno statistico di professione, il quale applica i test e le valutazioni della sua disciplina. Purtroppo lo statistico opera sovente con le stesse metodiche su numerosi fronti, cercando analogie che ne giustifichino l’uso senza conoscere a fondo i problemi di ciascuno di questi fronti. In linea di principio ciò non è necessariamente sbagliato, ma in certi casi può essere fonte di errore. L’ideale è la collaborazione tra un biologo con percezione statistica e un biostatistico o un biometrista con conoscenze specifiche sui problemi in studio: nella mia materia, l’auxologia, in Europa non ne conosco più di sette e negli Stati Uniti anche meno.
Questo tipo di condizione si può solo sviluppare progressivamente tramite una collaborazione continua e non chiedendo la saltuaria consulenza di uno statistico. Nel caso della medicina, la difficoltà di comunicazione corretta con gli statistici è peggiorata dal fatto che, di solito, il clinico è interessato agli estremi di un fenomeno (i casi patologici), mentre lo statistico tende a osservarne il centro e cioè l’andamento normale. Anche qui, in realtà, non vi è contrasto, ma bisogna capirsi. Da queste difficoltà di comunicazione nascono due principali effetti negativi. Il primo consiste nella pubblicazione di articoli statisticamente scorretti da parte di riviste che, tra i loro revisori, sovente non annoverano statistici veri ma solo clinici con velleitaria infarinatura statistica. Anche nel caso che vi siano statistici esperti, talvolta non sono sufficientemente competenti su tutti i principali settori affrontati dai biologi. Il secondo consiste nel fatto che a un ricercatore con buona percezione e conoscenza statistica può capitare di arrivare a rendersi conto con chiarezza di quale dovrebbe essere la strategia della elaborazione dei suoi dati e dei possibili scarti di certi percorsi, ma non possiede personalmente i mezzi per andare avanti, né li trova negli statistici, per quanto seri e preparati nel loro settore, che interpella. Si verifica così un primo tipo di «paralisi da statistica»: egli smette di produrre, mentre i dilettanti pubblicano allegramente su riviste internazionali, ammantando gli articoli con una statistica fittizia. All’opposto, una eccessiva rigidità statistico-metodologica può provocare un’altra forma di «paralisi da statistica», che si verifica quando si diventa ossessivamente dipendenti da conferme assolute. Provocatoriamente, per essere sicuri che l’eccesso alimentare di zuccheri a rapido assorbimento sia nocivo, occorrerebbe seguire, fin dalla nascita, per circa un secolo, due campioni casuali, piuttosto numerosi e tra loro omogenei,di persone. Uno dei gruppi introduce zuccheri e l’altro il placebo(!?). Meglio sarebbe avere anche un terzo gruppo, che non introduce né l’uno né l’altro. Per tutto questo tempo occorrerebbe monitorare la morbilità, la mortalità, numerose variabili laboratoristiche e la qualità della vita: tutto ciò, evidentemente, è assurdo. Venendo a un aspetto più pratico, in termini etici e a livello individuale può essere difficile, per esempio, non consentire a un malato di tumore con prognosi assolutamente infausta, per il quale i farmaci disponibili sono chiaramente inefficaci, l’impiego di un farmaco di nuova generazione, la cui efficacia non è ancora dimostrata con certezza ma è possibile, oppure inserirlo in un esperimento a doppio cieco (non si sa se riceve il farmaco o il placebo) in attesa di un verdetto, probabilmente post mortem. D’altro canto è chiaro che questa posizione potrebbe provocare un caos incontrollabile: mi rendo perfettamente conto che, a livello di popolazione, occorre scegliere il male minore. Pur con numerose eccezioni, la ricerca clinica, sicuramente in Italia, ma anche all’estero, affida di solito all’iniziativa personale, alle conoscenze o al caso, la possibilità di trovare un interlocutore statistico adeguato. Per quanto possa sembrare strano,una collaborazione tra biologi e statistici veramente efficace è, in realtà, appena agli inizi e, anche nell’ambito dell’insegnamento universitario, questo settore occupa spazi troppo ristretti, ma è il fulcro della ricerca clinica futura. [TSCOPY](*)Università di Torino.


Fonte: TuttoScienze (22/07/2004)
Pubblicato in Analisi e Commenti
Tag: statistica
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