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Farmaci per l'Alzheimer: ancora uno stop


Uno studio clinico mette in discussione luso degli anticolinesterasici

Sull'efficacia di alcune classi di farmaci nel modificare il ritmo di progressione della malattia di Alzheimer si accentrano oggi la maggior parte degli studi, le attese delle aziende produttrici e, non ultimo, le speranze dei malati e di chi li assiste. Purtroppo la più ampia e protratta sperimentazione clinica randomizzata e controllata condotta finora, quella del britannico Alzheimer's Disease 2000 Collaborative Group (AD2000) sul farmaco anticolinesterasico donepezil, non contribuisce ad alimentarle. Anzi sembra mettere in discussione le aspettative create da alcuni studi precedenti.

Quello delle opportunità di cura dell'Alzheimer rimane uno dei temi più controversi, e in un certo senso scottanti, della ricerca clinica. La gestione della malattia pone ancora una serie di difficoltà diagnostiche, tra cui la mancanza di elementi prognostici certi nella fase precoce, la variabilità della presentazione clinica e la possibile associazione con altre condizioni patologiche, di carattere internistico, neurologico o psichiatrico. Quanto alle possibilità terapeutiche, l'attenzione è catalizzata dagli inibitori della colinesterasi come il donepezil, che permetterebbero di contrastare il deficit colinergico corticale considerato il maggiore responsabile del deterioramento cognitivo.

'A tutt'oggi gli studi clinici forniscono indicazioni utili solo in parte, dimostrando un'efficacia modica di queste molecole nel migliorare i risultati dei test cognitivi, senza peraltro chiarire se ci sia un reale guadagno funzionale e un miglioramento della qualità di vita dei malati'spiegano i ricercatori della Clinical Trials Unit dell'Università di Birmingham, in Inghilterra. 'E soprattutto senza definire se i risultati si mantengano nel tempo'.

L'AD2000 ha messo alla prova il donepezil in quasi 600 pazienti con diagnosi di malattia di Alzheimer da lieve a moderata secondo i criteri del DSM IV, reclutando i casi in 22 ospedali, la maggior parte dei quali nella regione del West Midlands.
Il campione, rappresentativo - in termini di età, sesso, grado di deterioramento, genotipo APOE (variante allelica epsilon 4), compresenza di demenza vascolare e altre comorbidità - di una popolazione non selezionata di pazienti con Alzheimer, è stato suddiviso in modo casuale in due gruppi, sottoposti a trattamento con donepezil o con placebo rispettivamente, per un periodo iniziale di 12 settimane. Alla fine di questa prima fase, i circa 500 soggetti rimasti sono stati nuovamente divisi in due gruppi, nei quali il trattamento con donepezil o con placebo è stato protratto fino a quando giudicato opportuno nel corso del triennio (1998-2001) dedicato alla ricerca.

'Il lungo periodo di osservazione e la tipicità e ampiezza del campione sono i maggiori punti di forza dell'AD2000 rispetto agli studi precedenti, anche se hanno reso difficili e lunghe le operazioni di reclutamento e hanno comportato via via la perdita di una parte dei soggetti' sottolineano gli scienziati di Birmingham. 'D'altra parte, il nostro obiettivo era quello di stabilire se per un malato di Alzheimer qualsiasi, o eventualmente in condizioni particolari e predeterminabili, la terapia con anticolinesterasici possa davvero fare la differenza: se oltre ai modesti miglioramenti registrati attraverso i test cognitivi si possa sperare in sostanziali benefici clinici, tali da rallentare la perdita di autonomia e ritardare l'istituzionalizzazione dei pazienti, alleviare il carico assistenziale che si impone a chi li accudisce, ridurre l'onere che grava sui servizi sanitari'.

Gli esiti dell'AD2000 non alimentano l'ottimismo, oltre a essere in contraddizione con le indicazioni dello stesso UK National Institute for Clinical Excellence, il quale nel 2001 ha richiesto che gli anticolinesterasici fossero resi disponibili dal sistema sanitario britannico per il trattamento dei pazienti con Alzheimer da lieve a moderato. Nonostante confermino, anche sul lungo periodo, il lieve effetto positivo sui test di valutazione della funzione cognitiva, non suggeriscono alcun vantaggio rispetto alla progressione della disabilità, all'epoca dell'istituzionalizzazione, ai sintomi comportamentali o psicologici dei malati, alla salute psicofisica delle persone addette alla loro cura, al tempo da esse speso, ai costi assistenziali e sanitari. E neppure consentono di rintracciare variabili individuali o cliniche che possano assumere un valore predittivo dell'efficacia dei farmaci nei singoli casi o in sottogruppi di pazienti.

'Per di più' aggiunge in un editoriale di commento Lon Schneider, della University of Southern California, 'i ricercatori hanno registrato tra i pazienti trattati con donepezil un aumento, pur non significativo, di effetti avversi e di decessi che, se confermato su più vasta scala, potrebbe controbilanciare qualsiasi eventuale beneficio'.

La necessità di approfondire la reale utilità dei trattamenti farmacologici disponibili e di dedicare risorse all'esplorazione di modalità alternative di intervento resta tuttora attuale, soprattutto considerando che la malattia di Alzheimer è la causa più frequente di demenza negli anziani. In Italia colpisce attualmente circa 500 mila persone, popolazione purtroppo destinata a raddoppiare nei prossimi vent'anni.


Fonte: Tempo medico (26/09/2004)
Pubblicato in Medicina e Salute
Tag: Alzheimer
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