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Garattini: le nuove terapie solo una speranza


Il direttore dell’Istituto Mario Negri di Milano: forse è la strada giusta, ma l’Italia non è pronta

MILANO - Non tutte le persone rispondono bene allo stesso farmaco: la percentuale di fallimento è alta, spesso superiore al 50%. Ma è ancora da dimostrare che sarà la farmacogenomica - cioè la scienza che intende descrivere in modo preciso, attraverso lo studio del patrimonio genetico, perché alcune persone traggono beneficio da certi medicinali e altre no - a farci superare lo scoglio della scarsa efficacia: «Allo stato attuale, la farmacogenomica è solo una speranza» dice Silvio Garattini, direttore dell’Istituto «Mario Negri» di Milano. Il farmacologo conferma le percentuali di insuccesso dei medicinali fornite dal collega della GlaxoSmithKline: «La quota di pazienti che davvero trae vantaggio dall’uso di un determinato medicinale è compresa fra il 30 e il 50 per cento - dice Garattini -. Per gli altri, il farmaco si rivela inutile se non dannoso. Prendiamo gli antinfiammatori: in alcuni casi funzionano, in altri solo parzialmente, in altri non funzionano per niente».
Vale per tutti i medicinali, anche per l’aspirina?
«Vale per tutti. Gli antiipertensivi, per esempio: non tutte le ipertensioni rispondono allo stesso farmaco e non tutte allo stesso modo. Questo pone il problema dei pazienti resistenti al medicinale, a cui si dedica poca attenzione: in generale l’industria farmaceutica non fa ricerca su di loro».
Neppure se i «resistenti» sono il 50 per cento o più?
«Il numero in realtà è molto più basso. Chi è resistente a un farmaco può ottenere buoni risultati con un altro.
Quando il medico si accorge che con quel determinato paziente il prodotto non funziona, cambia medicinale, oppure somma un farmaco a un altro. Così alla fine - per restare agli ipertensivi - i pazienti "resistenti" non superano il 10 per cento».
I farmaci per l’Alzheimer, dicono alla Glaxo, funzionano in meno di un caso su tre. Un po’ poco, non crede?
«Ritengo che le percentuali siano ancora più basse: un risultato veramente significativo lo si ottiene nel 5-10% dei casi».
I pazienti lo sanno?
«Se ne parla poco, ma la realtà è questa. L’infallibilità del farmaco è un mito alimentato solo dall’industria farmaceutica, che molto spesso tace degli effetti collaterali».
La farmacogenomica è la soluzione?
«E’ una speranza, è quello che si pensa potrà dare risultati positivi. Ma, per ora, di certezze non ce ne sono».
Come funziona?
«L’azione di un farmaco dipende da come viene elaborato dall’organismo, da come viene assorbito, da come entra nella circolazione, da come arriva agli organi. L’idea è che se noi potessimo sapere come funzionano questi processi - e lo possiamo sapere in parte attraverso la conoscenza dei geni che sovraintendono a tutto questo - potremmo avere i profili genetici di chi ha forte probabilità di rispondere bene a un farmaco e i profili genetici di chi invece potrebbe riceverne effetti tossici. Questa è la speranza. In realtà non abbiamo ancora nessuna conferma, siamo indietro dal proporre queste metodologie».
Ma è la strada giusta?
«Forse, però non sono sicuro che l’industria vorrà percorrerla. Supponiamo che un farmaco funziona solo su 10 pazienti ogni mille trattati. Questo vuole dire che ci sono 990 persone che lo comprano inutilmente. Ora, se potessimo scoprire quali sono le 10 persone per le quali funziona, gli altri non lo acquisterebbero più. Non mi sembra un grande affare per l’industria».
E allora?
«La genetica, comunque, è il nodo centrale. L’obiettivo a cui si punta non è quello di avere un farmaco buono per tutti, ma più farmaci in grado di colpire tutte le categorie della malattia. Mano a mano che le conoscenze progrediscono, ci accorgiamo come malattie all’apparenza simili sono in realtà molto diverse fra loro. Prendiamo i tumori al colon: li chiamiamo con lo stesso nome, ma non sono tutti uguali e grazie alla genomica oggi sappiamo che hanno profili genici differenti».
La farmacogenomica è una ricerca anche italiana?
«E’ estremamente costosa e quindi alla portata solo dei colossi farmaceutici: le nostre aziende non raggiungono quelle dimensioni. In più non dà la certezza di centrare l’obiettivo. La ricerca italiana, dal punto di vista qualitativo, molto spesso è buona, ma manca la massa critica, manca un numero sufficiente di ricercatori e mancano imprenditori in grado di tramutare un’idea in un risultato».

Fonte: Corriere della Sera (09/12/2003)
Pubblicato in Biotecnologie
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