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Università, la casa dove non abitano gli scienziati


Negli Stati Uniti o in Inghilterra la parola «ricercatore» indica uno scienziato impegnato in una ricerca. Può essere giovane o anziano, avere un basso grado accademico o uno alto, può anche essere un

Negli Stati Uniti o in Inghilterra la parola «ricercatore» indica uno scienziato impegnato in una ricerca. Può essere giovane o anziano, avere un basso grado accademico o uno alto, può anche essere un premio Nobel. In Italia la parola, invece, indica il più basso livello della gerarchia universitaria. Quando i giornali scrivono che ci sono 17 mila ricercatori che aspettano di essere assunti, non si riferiscono a scienziati che, non trovando lavoro in Italia, porteranno il loro prezioso cervello e le loro eccezionali competenze all’estero. No, parlano di 17 mila persone che hanno ottenuto l’idoneità al più basso concorso universitario. E poiché in ogni concorso ci sono tre vincitori ma ne viene assunto uno solo, gli altri sono dichiarati idonei e aspettano di trovare un posto. Naturalmente fra questi idonei ci possono essere potenziali premi Nobel, ma il concorso non è certo indicato per scoprirli. Nell’università italiana, infatti, i risultati dei concorsi, non solo quello di ricercatore, anche quelli di professore associato e di professore ordinario, sono abitualmente decisi anni prima in base a complicate alchimie clientelari e politiche.
Per evitare equivoci, nei consueti lamenti sulla «fuga dei cervelli» io suggerisco a tutti, giornalisti, commentatori, ministri, presidenti, di smetterla di parlare di ricercatori, ma di usare l’espressione «scienziati». E’ degli scienziati che abbiamo bisogno. E sono gli scienziati veri, o coloro che ne hanno la vocazione e le capacità, che tendono ad andarsene. E perché se ne vanno? Perché nel sistema universitario italiano si trovano male, non vengono riconosciuti, non contano, vengono scavalcati dai mediocri appoggiati da professori potenti.
Per diventare scienziato bisogna averne la vocazione e l’ingegno, ma poi lavorare in un importante centro di ricerca, accanto a veri scienziati, in un ambiente intellettuale ricco, stimolante, d’avanguardia. La maggior parte delle scoperte vengono da questi luoghi, dove i veri grandi studiosi si scelgono, si invitano, si scambiano informazioni, discutono, polemizzano. E’ qui che si stabiliscono le frontiere della scienza. Al di fuori di questi centri non sai nemmeno che cosa cercare. Ma in questi posti ci arrivi solo se vali, e ci resti soltanto se inventi.
La fuga dei cervelli è la conseguenza della natura della nostra università. Qualcuno immagina che in università i professori passino il loro tempo a fare ricerca e, quando si incontrano, discutano di problemi scientifici, appassionatamente, animatamente.
No. L’università italiana non è un cenacolo culturale, scientifico, una fucina di idee. Io non ricordo, negli ultimi trent’anni, una sola volta, una sola ripeto, che, trovandomi con alcuni colleghi, qualcuno si sia messo a parlare di qualche problema scientifico. Neanche a cena. Nemmeno nei congressi, perché quasi tutti restano nei corridoi a fare manovre elettorali per i concorsi, per eleggere i presidi, i rettori, o accordi politici. I veri scienziati, di solito, restano fuori da questo giro, stanno fra di loro, passano il proprio tempo nei laboratori, a studiare, a scrivere, vanno all’estero. Chi domina la scena, chi decide, chi promuove, sono gli altri.

Fonte: Corriere della Sera (17/11/2003)
Pubblicato in Percezione e problemi biotech
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