«Ricerca, c’è una svolta sui fondi»
Moratti: in Europa progetti valutati come le grandi infrastrutture, finanziamenti per 27 miliardi
MILANO - È appena tornata da Bruxelles, sfoglia una pila di documenti e parla velocissima, a raffica, il tono felice, «la grande novità è che nascono progetti di ricerca come le infrastrutture materiali, capisce?, viene riconosciuta alla scienza la stessa importanza per lo sviluppo dei Paesi, si sostiene il Corridoio 5 e allo stesso modo le ricerche europee d’avanguardia, con finanziamenti innovativi, un successo di questo semestre che sarà molto importante anche per il nostro Paese». Il ministro Letizia Moratti si concede un pausa, come presidente di turno del «consiglio competitività» - che riunisce i responsabili europei di ricerca, mercato interno e industria - porta a casa un elenco di dieci aree di ricerca finanziate da dieci miliardi di euro, «il programma di sostegno alla ricerca europea ne stanziava 17, ora si arriva a 27, i finanziamenti sono quasi raddoppiati». Ma non si tratta solo di questo. C’è anche la faccenda del «Mit italiano», la fuga dei cervelli, i finanziamenti alla ricerca, gli investimenti delle aziende: la Moratti interviene a tutto campo.
Signor ministro, cominciamo dai progetti appena approvati dal suo consiglio....
«La nostra lista andrà al Consiglio dei capi di Stato e di Governo, il 12 dicembre, per il sì definitivo. È un primo elenco di interventi prioritari, la cosiddetta quick start list . E fa parte dello stesso gruppo di progetti che comprende le grandi infrastrutture. Già a luglio Ecofin (i ministri finanziari, ndr ) aveva cominciato a prendere in considerazione la nostra proposta, poi formalizzata in settembre, l’idea di finanziare la ricerca come le infrastrutture materiali e di trasporto: non più solo i fondi statali ma anche la Bei, la Banca europea. Così è stato: i dieci miliardi di ricerca saranno cofinanziati dalla Bei. Può sembrare un dettaglio tecnico ma è una rivoluzione: la ricerca non più vista come spesa ma come investimento nello sviluppo dell’Europa».
Ma quali sono, di preciso, e in che modo interessano l’Italia?
«È semplice: si aggiungono risorse a livello europeo e l’Italia può partecipare, abbiamo già preso contatto con la Bei e presentato la nostra lista, una decina.
Del resto parliamo di progetti che, per essere finanziati, devono essere transnazionali, vedere la partecipazione di più Paesi. I settori che più ci interessano, come Italia, sono le telecomunicazioni a banda larga e i laser di prossima generazione, anche la nanoelettronica. Ma nella lista ci sono pure comunicazioni mobili, il potenziamento delle reti di ricerca e istruzione, l’economia dell’idrogeno per riscaldamento o come carburante, la creazione di una rete satellitare e il sistema Galileo, l’investimento sullo studio del genoma e le sue applicazioni...».
E il cosiddetto «Iter», il sito per la creazione di energia attraverso la fusione nucleare? Perché si è scelta la Francia?
«Lo abbiamo approvato all’unanimità, candidando Cadarache come sito e una città spagnola come sede legale. Adesso l’Europa dovrà vedersela con la concorrenza di Giappone e Canada. E se ce la facessimo, ne guadagnerebbero tutti: come Italia abbiamo quattromila persone che lavorano nel settore, tra Enea e Euraton...».
A proposito di ricerca in Italia: i finanziamenti continuano ad essere assai bassi, rispetto all’Europa...
«La spesa per la ricerca scientifica, tra pubblico e privato, arrivava all’1,3 del Pil nel ’91 e dieci anni più tardi, quando sono divenuta ministro, si era scesi all’1,07. Nel 2003 abbiamo aggiunto 400 milioni di euro, con questa Finanziaria si arriva a un totale di un miliardo e 700 milioni di investimenti nella ricerca, ed è una stima prudente».
Sì, ma in termini percentuali la media resta più bassa, no?
«Dipende: quanto ai finanziamenti pubblici alla ricerca, siamo saliti dallo 0,53 allo 0,63 del Pil contro lo 0,66 della media europea: con la Finanziaria ci siamo portati allo stesso livello. Il problema riguarda soprattutto i finanziamenti privati...».
Confindustria chiedeva incentivi alle imprese che fanno ricerca .
«E infatti li abbiamo previsti: si è concessa la defiscalizzazione a tutte le imprese che investono in ricerca. In più, nell’ultimo consiglio dei ministri, abbiamo approvato le esenzioni per le donazioni a scuole, università e istituti di ricerca: ogni società che fa donazioni può dedurle fino al 2 per cento del reddito».
Ma perché, secondo lei, le imprese stentano ad investire? Troppa burocrazia?
«Il problema è che il tessuto italiano è composto per lo più di aziende medie e piccole che faticano ad investire in innovazione di prodotto. D’altra parte, le imprese non capitalizzano la ricerca, la inseriscono nelle spese, e quindi non risulta dai bilanci: la media, in realtà, potrebbe essere più alta».
Torniamo al problema dei fondi pubblici. Il progetto di un «Mit» italiano, voluto dal ministro Tremonti, non piace a molti scienziati, a cominciare dal Nobel Carlo Rubbia. Non sarebbe meglio investire sugli enti che già ci sono?
«A quel progetto stiamo lavorando con il ministro dell’Economia, siamo in perfetto accordo, con Tremonti mi sono sentita anche oggi per mettere a punto il decreto istitutivo e lo Statuto. Ma non è vero che toglie risorse agli altri centri di ricerca, è una fondazione, ha caratteristiche diverse: si aggiunge al sistema. E poi abbiamo aumentato le risorse, assunto 1.700 ricercatori, stanziato 20 milioni di euro per i progetti nazionali, non mi sembra si sia tolto nulla».
E la fuga dei cervelli?
«Da quando sto qui sono rientrati duecento professori e ricercatori, investiamo circa 10 milioni di euro l’anno. Ma francamente mi pare riduttivo parlare di fuga o rientro: c’è una mobilità e circolarità del sapere, per fortuna. Si sono appena stanziati 230 milioni per "Erasmus mundus", un programma di scambio planetario per dottorandi e ricercatori. L’importante, piuttosto, è che non ci sia una stagnazione».
Fonte: (28/11/2003)
Pubblicato in Analisi e Commenti
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