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Terapia anticancro Folkman: che fine ha fatto?


Una ricerca costata solo 7 milioni di lire. Ora si può provare sull’uomo, l’interesse delle case far

MILANO - Che fine ha fatto la cura anticancro studiata dal pediatra americano Judah Folkman? Molto efficace nei topi, non sembra aver avuto gli stessi risultati sull’uomo. Soprattutto perché il farmaco-chiave, l’endostatina, sembra non esprimere la stessa potente efficacia nel bloccare i vasi sanguigni del tumore in formazione. Perché? L’idea di Folkman resta buona: togliere il «cibo» al tumore, impedendogli di creare la rete di vasi sanguigni da cui si «alimenta». Il problema è nell’endostatina stessa. La grossa molecola è composta di più frammenti attivi (domini) con azioni diverse, contrastanti: due agiscono proprio come vorrebbe Folkman, uno in particolare avrebbe un’azione anche mille volte più efficace dell’intera endostatina, mentre un terzo stimolerebbe la formazione di nuovi vasi (azione contraria).
Il che, nella pratica, si trasforma in un boomerang: soprattutto quando i malati sono terminali, come quelli per cui le sperimentazioni sono state approvate. Si aggiunga il fatto che nelle fasi terminali le cellule tumorali producono più di un tipo di fattore stimolante la formazione di vasi sanguigni. L’impiego della molecola intera dell’endostatina, quindi, ne aggiunge ancora un altro.
E’ quanto scoperto dall’università di Milano, la prima nell’aprile 1999 a brevettare i frammenti sintetici dell’endostatina. Un docente del dipartimento di Chimica organica, Francesco Chillemi, lavorando con un finanziamento ministeriale di poco più di 3.500 euro (sette milioni di vecchie lire), ha battuto le multinazionali del farmaco identificando e riproducendo sinteticamente i diversi frammenti attivi della molecola.

«Abbiamo verificato a livello sperimentale - spiegano Chillemi e collaboratori in una recente pubblicazione apparsa sull’autorevole Journal of medicinal Chemistry - che i frammenti (peptidi) 6-49 e 136-178 dell’endostatina sono efficaci nel bloccare la formazione di nuovi vasi sanguigni (anti-angiogenesi) del tumore, mentre un terzo centro (il frammento 90-134 murino che corrisponde grosso modo al frammento 93-133 umano) agisce remando contro (pro-angiogenesi). Il frammento 6-49 è quello più attivo ma la sua azione aumenta se somministrato con il frammento 136-178. Anche presi singolarmente hanno un’attività anti-angiogenica più potente rispetto a quella della molecola intera di endostatina. Quindi noi proponiamo l’impiego dei nostri due peptidi anti-angiogenici da soli o meglio in miscela al posto dell’endostatina intera nelle malattie dove occorre bloccare la formazione di nuovi vasi sanguigni (cancro, artrite reumatoide e retinopatie). Inoltre, esperimenti effettuati da Henry Brem nei laboratori dell’università Johns Hopkins di Baltimora hanno dimostrato, negli animali, che l’abbinamento del peptide 6-49 (fornito dall’università di Milano) con farmaci antitumorali (chemioterapici) esercita un effetto sinergico molto potente e prolungato nel tempo». In queste condizioni gli animali su cui era stato innestato un tumore cerebrale molto aggressivo riescono a sopravvivere per un periodo notevolmente più lungo rispetto a quelli trattati con la sola carmustina (uno dei pochi antitumorali che riesce a superare la barriera ematoencefalica, quella che protegge il cervello).
Altri studi, effettuati in collaborazione con l’università di Siena (la professoressa Marina Ziche) e pubblicati a novembre su Clinical Cancer Research , hanno inoltre confermato, con test sugli animali, che i frammenti sintetici attivi nel bloccare la formazione di nuovi vasi sanguigni riescono a fermare la crescita tumorale anche nei topi senza difese immunitarie (immunodepressi) con una potenza quasi doppia rispetto all’intera endostatina. Si è visto peraltro che questi frammenti sono del tutto privi di effetti tossici.
Le nuove scoperte hanno riaperto l’interesse delle aziende farmaceutiche e la possibilità di una sperimentazione clinica sull’uomo. Un «miracolo» italiano trasformatosi una volta tanto in una serie di brevetti internazionali frutto di un finanziamento quasi ridicolo di sette milioni di lire in più anni. Anche questa è ricerca.

Fonte: Corriere della Sera (04/01/2004)
Pubblicato in Medicina e Salute
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