Giordano e lo Sbarro, progetti e ambizioni per il futuro della ricerca
L'avventura statunitense di Antonio Giordano inizia a 23 anni, quando, dopo la laurea a Napoli, si trasferì negli States per un dottorato di ricerca triennale, allievo del Premio Nobel Watson. A 2
L'avventura statunitense di Antonio Giordano inizia a 23 anni, quando, dopo la laurea a Napoli, si trasferì negli States per un dottorato di ricerca triennale, allievo del Premio Nobel Watson. A 28 anni era Assistant Professor in Biochimica alla Temple University di Philadelphia. A 30 anni fondatore, insieme a Mario Sbarro proprietario di una catena di ristoranti italiani, dello Sbarro Institute for Cancer Research che si è distinto negli anni per scoperte nella lotta al cancro. Pochi flash di una vita professionale che potrebbe rappresentare in pieno il fenomeno della “fuga dei cervelli” anche se il ricercatore napoletano non ne vuole sentir parlare. “Io non credo nella fuga dei cervelli o meglio non credo in queste parole come sono utilizzate oggi. Il problema esiste da 100 anni. C’è un uso inflazionato: oggi è diventato solo uno strumento di marketing politico, viene strumentalizzato senza portare a soluzioni”. Però anche lei ha preferito l’America. Perché? Se i ricercatori se ne vanno dall’Italia un motivo ci sarà. Sì scelsi l’America perché negli anni ’80 capii che la genetica avrebbe rivoluzionato la medicina. Volevo creare una pensiero scientifico di ricerca nuovo, che fosse indipendente. E quando vuoi fare qualcosa di nuovo ti devi misurare con i migliori. Vede, c’è una grande differenza tra il sistema America ed il sistema Italia. Se hai ambizioni l’America ti offre una possibilità. La creatività scientifica viene premiata: la scelta di un giovane ricercatore non è imposta da programmi politici, ma è una scelta meritocratica. In Italia, secondo gli ultimi dati del Cnr di Roma, si investe in ricerca& sviluppo solo l’1,1 % del Pil, contro il 2,2 % dell’Austria, il 2,5% della Germania, il 3,9% della Svezia.
Il cammino è arduo per raggiungere l’obiettivo di Lisbona: il 3% del Pil entro il 2010. Perché non si investe nel nostro Paese? Perché manca la lungimiranza. E poi, diciamolo ad alta voce, bisogna spezzare il meccanismo politico. Finché la politica, con le sue lobbies, imporrà le sue scelte nell’ambiente scientifico il sistema Italia non cambierà. La politica deve aiutare la cultura scientifica, ma non influenzarla. Dal gennaio 2004 è stato nominato professore ordinario per chiara fama in Anatomia Patologica presso il Dipartimento di Patologia umana ed oncologica dell’Università degli studi di Siena. Come ha trovato l’ambiente universitario italiano? Ho trovato una grande apertura nei miei confronti. Ma allo stesso tempo da parte del mondo accademico si percepisce molta sofferenza e frustrazione. Sono desiderosi di sviluppare progetti di ricerca. Gli studenti tendono invece ad essere impauriti, poco stimolati a rischiare e a giudicare. Ho infatti proposto di introdurre, come in America, la valutazione degli insegnanti da parte degli studenti. E’ giusto che anche noi professori ci sottoponiamo al fuoco incrociato dei ragazzi. E’ da Siena che parte il suo ultimo progetto? Sì, sto gettando le basi per creare, la prima sede dello Sbarro Institute in Europa, una struttura di ricerca indipendente con un suo modello di ricerca vincente. Per ora nel Centro senese ci sono 12 ricercatori, ma ovviamente l’obbiettivo è di aumentarli. Ho lanciato un ponte tra gli Stati Uniti e Siena: con l’interazione tra i due istituti vorrei velocizzare il progresso scientifico. Come si può rendere attraente la carriera del ricercatore in Italia? Penso innanzitutto con una gestione differente dei finanziamenti. Da una parte vanno pagati di più, dall’altra vanno eliminati i finanziamenti inutili. Lo Stato dovrebbe iniziare ad investire in progetti di valore ossia finanziare le strutture di ricerca che propongono programmi scientifici competitivi. In Usa lo Stato vuole la ricerca, investe in imprese e tecnologie, ma seleziona. Lo Sbarro ne è un esempio. È nato dall’investimento di un privato, ma oggi l’80% dei fondi arrivano dallo Stato federale. Anche il ruolo dei privati, delle fondazioni è molto importante. Bisognerebbe poi investire nel giovane ricercatore: è tra i 20 e 40 anni che si sviluppano le proprie idee scientifiche. Lei crede molto nei giovani. La sua équipe di Philadelphia è composta da ricercatori, in media, trentenni. Sì sono tutti giovani desiderosi di imparare, di fare ricerca e di sperimentare. Credo nei giovani tanto che, oltre a dare la possibilità di dottorati presso il nostro centro, da 13 anni abbiamo attivato l’Under Graduate Research Program ossia coinvolgiamo e avviciniamo alla cultura scientifica e alla ricerca studenti dai quindici anni in poi grazie all’erogazione di borse di studio del valore di 2500 euro, cifra che raddoppia se arrivano dall’estero. I ragazzi per otto settimane lavorano ad un progetto scientifico coordinati da un senior investigator. Finora hanno partecipato 40 giovani, di cui il 90% è poi rimasto nel campo della ricerca scientifica.
Redazione (03/11/2005)
Pubblicato in Analisi e Commenti
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