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«Ho messo il "turbo" ai laboratori di ricerca»


La Gloria Artec di Samarate realizza i sistemi di aspirazione flessibile per le case farmaceutiche d

SAMARATE (Varese) - «Incredibile ma vero, adesso le cappe hanno le ruote». L’industriale Alberto Rivolta, 54 anni, due figli, non è impazzito e neanche parla di mobili da cucina. Nella sua Gloria Artec di Samarate (Varese), produce attrezzature per laboratori di ricerca, farmaceutici e chimici. In pochi lo sanno, ma è lui a rifornire il gigante Pfizer, primo al mondo nell’industria farmaceutica. E anche la Glaxo SmithKline, seconda, e l’americana Merck, e la svizzera Novartis. E ancora le italiane Eni e Menarini, l’Istituto di Biotecnologia molecolare di Pomezia, la veneziana Benckiser Italia-Mira Lanza. E la Ares Serono in Svizzera, l’Alexandria Mineral Oil Company in Egitto, la University of Kent. «In Inghilterra ci chiamano la Ferrari delle cappe aspiranti - dice Rivolta -. E’ dalla nostre apparecchiature che sono uscite molte delle sostanze Glaxo SmithKline negli ultimi dieci anni». Le cappe alle quali Rivolta fa riferimento sono quelle utilizzate nei laboratori dove gli scienziati analizzano le provette: il sistema di aspirazione realizzato dall’azienda di Samarate consente di eliminare le sostanze tossiche che si sprigionano durante le attività di ricerca. Alla Gloria Artec, azienda familiare da 5 milioni di euro di fatturato e con quaranta dipendenti, è partita la rivoluzione meccanica della ricerca scientifica mondiale. Fino a ieri, infatti, banconi e cappe aspiranti dei laboratori non si potevano muovere: «Erano fissi il condotto per l’aria, quello per i fluidi, i cavi per l’elettricità - spiega Rivolta -.
I ricercatori stavano chiusi nelle loro stanze, senza poter comunicare né cambiare postazione ad ogni nuovo progetto». Spinto da Glaxo SmithKline che voleva far lavorare gli scienziati in spazi ampi che facilitino gli scambi d’informazioni, la Gloria Artec ha inventato il laboratorio flessibile. Si chiama «flexilab», appunto. «Vede - spiega Rivolta - ogni cappa, ogni bancone può essere spostato su rotelle. Gli attacchi per l’aria forzata, per i fluidi, per l’elettricità sono aerei e le postazioni si possono muovere a seconda del tipo di progetto di ricerca, collegandosi a spine. I laboratori si possono estendere, adattare e trasportare facilmente e, grazie a piccoli computer collegati alle cappe, è anche possibile risparmiare fino all’80 per cento di energia».
Insomma, un uovo di Colombo. Il progetto è stato concluso nel 2001, dopo tre anni di ricerche. Ora comincia ad essere applicato. Il primo flexilab italiano, firmato Gloria Artec, è stato installato il 28 ottobre scorso a Baranzate di Bollate, nel centro ricerche della Nikem Research, società che seleziona le molecole per l’industria farmaceutica, nata da una costola di Glaxo. «Un sistema formidabile che ci consente di lavorare meglio», commenta l’amministratore delegato, Carlo Farina. «Abbiamo un solo concorrente nel flexilab - commenta Rivolta - ed è in Inghilterra. Ma tutta la ricerca sta puntando sulle cappe aspiranti, per questioni di sicurezza ed ecologiche: sta scomparendo il modello tradizionale di ricerca, non ci sono più singoli ricercatori che lavorano separati gli uni dagli altri, ma gruppi che si occupano del progetto in grandi spazi, dove i chimici parlano con i biologi, o con gli informatici. L’arredamento deve potere essere modificato a seconda delle necessità, per accelerare i processi d’individuazione delle molecole». Si tratta di un nodo cruciale per l’industria farmaceutica: infatti, mentre i farmaci che ottengono l’approvazione continuano a diminuire (51 nel ’91, 31 nel 2001, 24 nel 2005, prevede Cimr), sale il costo per svilupparli (830 milioni di dollari nel 2000, un miliardo nel 2001, 1,2 miliardi nel 2005).
Insomma, una produzione redditizia e in crescita (fatturato raddoppiato negli ultimi dieci anni), la Gloria Artec realizza il 69% del suo giro d’affari nei Paesi europei, ricavando il 59% del fatturato dalla vendita delle cappe da laboratorio. L’azienda di Rivolta è una delle ultime imprese familiari rimaste in quest’area lombarda, ex regno del tessile. «Ricordo quando Busto Arsizio era chiamata la Manchester d’Italia per la sua produzione cotoniera - conclude Rivolta -. Hanno chiuso tutti qui intorno, come la Bustese Industrie Riunite. Questa terra ormai si è impoverita d’imprese».

Fonte: Corriere della Sera (11/01/2004)
Pubblicato in Analisi e Commenti
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