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Parkinson: non solo farmaci


Cure «d’appoggio» esercizio fisico, supporto psicologico, dieta sono trattamenti ancora poco pratica

Un tremore alla mano, appena accennato. Passi un po' più rigidi del solito. Si pensa allo stress, alla stanchezza. Poi, magari, arriva la doccia fredda: malattia di Parkinson. Come reagire? Iniziando subito a curarsi, senza affidarsi soltanto alle pillole: queste le conclusioni di un simposio dedicato al Parkinson che si è svolto durante l'ultimo congresso della Società italiana di geriatria, a Firenze. Gli esperti non hanno dubbi: esercizio fisico, dieta, supporto psicologico, terapia occupazionale sono tutte "armi non convenzionali" in grado di limitare il declino cui espone la malattia. Purtroppo, sono pochi i pazienti che ci credono: dal 3 al 29 per cento, stando agli studi pubblicati in materia. STRATEGIA MULTIPLA
Spiega il professor Pezzoli, direttore del Centro per la Malattia di Parkinson degli Istituti Clinici di Perfezionamento di Milano: «Molti pensano che le terapie non farmacologiche siano secondarie, ma in realtà sono queste a fare la differenza. Il benessere del paziente è ben diverso se il medico si limita ad allungare una ricetta o se viene impostato un intervento a tutto tondo».
Senza dimenticare i farmaci, che cosa si può fare, allora, per stare meglio?
Prima di tutto, la terapia fisica: all'inizio può essere semplicemente fare movimento con costanza; con il passare del tempo può diventare una vera e propria fisioterapia.

È altrettanto importante ridefinire la dieta in modo da non interferire con l'effetto delle medicine e, anzi, potenziarne l'azione. Ed è utile partecipare a programmi di terapia occupazionale, attraverso cui ci si "riappropria" di semplici movimenti che la malattia rende difficoltosi. Se ci sono disturbi della voce, poi, è bene rivolgersi al logoterapeuta; se è l'umore ad andare giù, arriva in aiuto la psicoterapia e il sostegno psicologico per sé e per i propri familiari.
PERSONALIZZAZIONE
È altrettanto vero, però, che fin dall'inizio non si può fare a meno dei farmaci.
«Non è ragionevole aspettare a iniziare la terapia farmacologica» assicura il professor Pezzoli. «Di solito nelle prime fasi ci si affida ai dopamino-agonisti (vedi box sotto), scegliendo il farmaco e la dose in base alla risposta. Ma il trattamento dipende molto dalle necessità del malato: in un ottantenne si cercherà di non esagerare con le pillole, mentre in un paziente che voglia cancellare ogni sintomo della malattia si potrà iniziare con la levodopa, cioè con la medicina anti-Parkinson per antonomasia, cui tutti i malati prima o poi arrivano».
Efficace e poco costosa, la levodopa garantisce un buon controllo dei sintomi, ma ha un neo: con il tempo, il suo effetto diventa instabile e compaiono le cosiddette discinesie. In parole semplici, attacchi in cui il malato è scosso da movimenti incontrollabili. «Rispetto al passato, oggi riusciamo a contenere la malattia molto meglio, anche grazie agli altri farmaci» rassicura Pezzoli. «Se quindici anni fa le fluttuazioni della terapia con levodopa comparivano dopo cinque anni dalla prima pillola, oggi, poiché utilizziamo dosi inferiori, i primi problemi si accusano dopo otto, dieci anni».
Secondo le linee guida italiane di trattamento del Parkinson, da poco comparse su Neurological Sciences, la scelta del farmaco dipende dall'età del paziente al momento della diagnosi
Parkinson a esordio giovanile (meno di 50 anni): si inizia con i dopamino-agonisti da soli, per evitare il rischio di sviluppare gli effetti collaterali da levodopa in pochi anni; in seguito, si aggiunge levodopa alle dosi più basse possibili.
Parkinson che compare fra i 50 e i 70 anni: è possibile scegliere i dopamino-agonisti da soli, la levodopa a basse dosi o un'associazione fra questi farmaci.
Parkinson che esordisce dopo i 70 anni: si può iniziare con levodopa da sola o in associazione con un dopamino-agonista.

Fonte: Corriere della Sera (11/01/2004)
Pubblicato in Medicina e Salute
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