Ipertermia: quel calore che cura i tumori
Ipertermia: quel calore che cura i tumori Paolo Pontiggia: Ipertermia: quel calore che cura i tumori Cercherò in poche parole di spiegare cos'è l'ipertermia, qual è l'obiettivo che ci si propone nel parlare di questo argomento. La vita di un medico può essere intesa in mille maniere. Dal mio punto di vista, e sicuramente dal punto di vista di George Mathé, che è un illustre oncologo col quale collaboro da trent'anni, la vita del medico, per noi, è sempre stata soprattutto un'avventura intellettuale. Il ricercare strade nuove, innovazioni terapeutiche, diventa obbligatorio quando si ha a che fare con una popolazione la cui cura dà risultati estremamente deludenti. Avevamo cominciato negli anni '60, Mathé un po' prima, io un po' dopo, con la cura dei tumori del sangue, delle leucemie e dei linfomi. A quel tempo tutti i malati, indistintamente, morivano. Senza la speranza di ottenere un risultato, senza l'attaccamento al proprio lavoro, francamente sarebbe stato impossibile, a quei tempi, continuare a curare malati che regolarmente morivano nel giro di sei mesi, di un anno, di un anno e mezzo. A un certo punto sono state introdotte innovazioni, e l'innovazione principale è stata la chemioterapia, che con combinazioni particolari di farmaci ha consentito di ottenere dei risultati brillanti in alcuni casi di leucemie e di linfomi. A quel momento la scoperta era stata molto interessante, ha avuto un impatto notevole su tutta la letteratura scientifica da allora in poi ma, anche da parte nostra, è stato compiuto l'errore strategico di voler trasferire le acquisizioni ottenute in campo ematologico alla cura dei tumori solidi, quindi dei tumori del polmone, dello stomaco, della mammella, eccetera. Bisogna ammettere, onestamente, che l'operazione non è stata felice, è stata un mezzo fallimento, perché i risultati non sono stati altrettanto brillanti e perché, a fianco delle devastazioni provocate da chemioterapia aggressiva, da radioterapia massimale, da chirurgia ultrademolitrice, noi abbiamo potuto raccogliere dei risultati estremamente scarsi, miseri, nella stragrande maggioranza dei tumori solidi. A questo punto, a alcuni di noi è sorto impellente il desiderio di trovare una strada innovativa che consentisse di ottenere dei risultati migliori, o magari, anche senza ottenere dei risultati migliori, di cercare di evitare quegli effetti dannosi delle terapie che erano davanti agli occhi di tutti. È nato l'atteggiamento di Mathé nei confronti dell'immunoterapia, di Levin, che è stato il mio maestro americano, nei confronti dell'ipertemia, e il tentativo di combinare terapie biologiche a scarsa incidenza di effetti collaterali in maniera da ottenere dei risultati, se non ottimali, sicuramente accettabili. L'altro dato che bisogna prendere in considerazione è il fatto che noi, quando applichiamo una terapia come la chemioterapia o come la radioterapia a una persona giovane, abbiamo degli effetti collaterali di un certo tipo; man mano che aumentiamo l'età dei nostri pazienti, gli effetti collaterali aumentano d'importanza e di intensità e, soprattutto, diminuisce la capacità di recupero. Se noi consideriamo che tutta la popolazione sta invecchiando, se noi consideriamo che c'è l'altro dato che i tumori aumentano d'incidenza con l'aumentare dell'età, vi è davanti a noi una larga fetta di popolazione e di malati tumorali, in età adulta, anziana o avanzata, che risentono pochi benefici dalle terapie usuali e che risentono molto degli effetti collaterali. A questo punto, l'intendimento di preservare nei limiti del possibile delle condizioni di vita accettabili, ci è parsa la strada da seguire. E allora abbiamo cominciato a trattare i pazienti, attorno al 1980, con ipertermia, con immunoterapia, con terapia ormonale, diminuendo le dosi dei farmaci e delle radiazioni, cercando di convincere gli amici chirurghi a non essere troppo aggressivi o a non operare quando la radicalità non era possibile, e abbiamo sicuramente ottenuto dei risultati che ci consentono di dire che la qualità di vita del paziente migliora; in alcuni casi si sono ottenuti anche dei risultati sulla sopravvivenza. Il dato crudo del malato che vive di più, del malato al quale si riesce a tenere sotto controllo il tumore, oppure ad eliminare il tumore, è diventato un dato interessante. Tutta questa esperienza è stata raccolta in questo volume: è l'esperienza di due medici che per trent'anni hanno collaborato con l'obiettivo di ottenere delle condizioni di vita del paziente neoplastico più normali possibili e, nei limiti del possibile, di ottenere anche un prolungamento di sopravvivenza che è stato documentato in un certo numero di casi. Cos'è l'ipertermia? L'ipertermia è la terapia col calore. C'è stato un biochimico, Pavese, un italiano, che nel 1947 aveva dimostrato come le cellule tumorali coltivate in laboratorio sopravvivono meno delle cellule normali quando si aumenta la temperatura. Quindi, quando noi arriviamo dai normali 37°C a 42-43°C, abbiamo una moria di cellule tumorali, e questo è il primo dato. Il secondo dato è quello che farmaci e radiazioni, che sono le basi della terapia usuale dei tumori, la chemioterapia e la radioterapia, manifestano la loro efficacia mediante delle reazioni biochimiche che avvengono all'interno della cellula. Queste reazioni chimiche, come tutte le reazioni chimiche, sono influenzate dal calore. Normalmente, quando noi portiamo una cellula da 37°C a 42°C facilitiamo l'azione di queste sostanze, o di questi agenti fisici come le radiazioni. Quindi abbiamo un primo effetto dell'ipertermia che è un effetto di distruzione diretta delle cellule tumorali; abbiamo un secondo effetto che è quello di facilitazione dei farmaci e delle radiazioni; abbiamo un terzo effetto che è quello di stimolare l'immunità del soggetto. Quando nei tempi andati, in epoca preantibiotica, il malato guariva di polmonite, guariva dopo una crisi febbrile. Quando la crisi febbrile non avveniva, di solito il malato moriva, perché la crisi febbrile era indice di una reazione immunitaria del paziente alla malattia, in questo caso una malattia batterica. Nei tumori succede lo stesso. Ci sono dei tumori che hanno un andamento lento, lungo, cronico; ci sono tumori invece che uccidono il soggetto in pochi mesi, a seconda del terreno nel quale il tumore si trova a crescere. Se le difese del soggetto, le difese immunitarie del paziente sono forti, il tumore ha più difficoltà a disseminarsi, a creare condizioni letali. La stimolazione immunitaria indotta dall'ipertermia simula artificialmente la stimolazione immunitaria che il Padre Eterno ci ha dato con la febbre. In pratica simuliamo con tecnologie moderne un meccanismo antico che è quello della attivazione delle cellule dell'organismo, deputate alla difesa dagli agenti esterni. Se noi mettiamo insieme questo panorama, vediamo che l'ipertermia può avere un ruolo non indifferente nella terapia dei tumori. Perché? Perché gli effetti collaterali sono scarsissimi. Io dico che sono zero. Non è vero che sono zero, però sono veramente vicini a zero se l'operatore è un operatore capace, naturalmente. In questa situazione si sono ottenuti dei risultati documentati in molte malattie. Per esempio, nelle recidive del tumore della mammella, s'è visto che l'associazione ipertermia-radioterapia funziona meglio della sola radioterapia. Lo stesso può dirsi per il melanoma, lo stesso vale per l'osteosarcoma, lo stesso vale per i tumori della vescica, lo stesso vale per le disseminazioni peritoneali da tumore dello stomaco, da tumore dell'ovaia. Ci sono molte condizioni nelle quali si è dimostrato, aldilà di ogni ragionevole dubbio, che l'ipertermia agisce in senso favorevole nell'evoluzione di una malattia tumorale. Recentemente, due, tre anni fa, dopo molte battaglie, l'ipertermia è entrata nel prontuario sanitario nazionale, quindi è terapia codificata nei canoni dello stato italiano e di tutti gli stati della comunità europea, tuttavia non è molto conosciuta né molto utilizzata per numerosi motivi: uno è sicuramente quello di una difficoltà di applicazione, cioè sono motivi organizzativi; l'altro motivo, purtroppo, ho l'impressione che sia un ostacolo psicologico dovuto alla mentalità dei medici, che è una mentalità farmaco-dipendente. Che sia farmaco dipendente per interessi specifici o per attitudine culturale non lo so, però sicuramente c'è un atteggiamento di farmaco dipendenza. Però, al pubblico, bisognava dire, e l'abbiamo detto, che esistono terapie biologiche, ad incidenza minima di effetti collaterali, che possono consentire, non dico di curare il malato tumorale, bensì di aiutare a curare il malato tumorale. Questo è il messaggio; è un messaggio anche ottimista, perché in alcuni casi ci sono delle remissioni che vanno aldilà di ogni logica possibile e che ci fanno pensare che questi casi particolari di lunghe sopravvivenze o di scomparsa di tumore, studiati a dovere, possono dare delle indicazioni per un allargamento della metodica a situazioni che attualmente sembrano senza nessun effetto, senza nessuna possibilità di cura. Dal mio punto di vista, il fatto che numerosi colleghi a Padova si stiano occupando dell'argomento è un incoraggiamento, una conferma che la nostra intuizione era un'intuizione valida. Ci sono alcuni aspetti tecnici che vorrei puntualizzare, però, di base c'è il fatto che oggi possiamo tranquillamente dire che abbiamo una metodica ulteriore a disposizione del medico che vuol curare un paziente neoplastico, e che merita di essere sfruttata più di quanto non sia stata sfruttata finora, nel senso del volume che avevamo scritto. Per quanto riguarda l'associazione chirurgia e ipertermia perfusionale, giustamente il dottor Rossi diceva che ci sono delle complicazioni possibili nell'ipertermia perfusionale, e noi avevamo usato l'ipertermia perfusionale a lungo. L'abbiamo usata addirittura per la terapia palliativa dell'AIDS, quando non c'erano i farmaci moderni e gli inibitori delle proteasi. Ci sono effetti collaterali da perfusione nel caso di utilizzazione dell'ipertermia in circolazione extracorporea che non possono essere sottovalutati. Pensiamo di avere bypassato il problema, in quanto, anziché ottenere un aumento di temperatura a 42-43°C con una perfusione vascolare, noi otteniamo i 42-43°C con un riscaldamento fisico del corpo; per esempio, in soggetti giovani in buone condizioni, un irraggiamento con raggi infrarossi consente di ottenere i 42°C, senza problemi, su tutto il corpo, quindi arto compreso. Ci sono metodiche che consentono di ottenere risultati analoghi abbassando di molto gli effetti collaterali, e credo che queste metodiche non siano state valutate a sufficienza proprio perché vengono utilizzate da meno tempo e non c'è stata una casistica clinica come quella per la perfusione. La perfusione è stata iniziata da Levin negli anni '60, quindi ha 30 anni di esperienza alle spalle. Le terapie di radiazioni ne hanno molto meno e quindi saranno valutate in futuro, però, secondo me, c'è la possibilità di bypassare questi ostacoli che sono gli eventuali effetti collaterali di questo particolare tipo di ipertermia. Per quanto riguarda l'intervento del collega Corti, lui giustamente, da radioterapista, insiste sul problema della termometria. Io sono molto più tiepido sul problema della termometria, perché vedo di più l'ipertermia, comunque praticata, un artifizio per diminuire il dosaggio massimale di radiazioni ionizzanti o di chemioterapici. In pratica si è visto che, se noi utilizziamo il 100% di radiazioni, o utilizziamo il 70% di radiazioni più ipertermia, il risultato biologico viene a essere uguale; per cui, diminuendo la dose massima di radiazioni, si riescono ad evitare molti dei fenomeni collaterali legati all'uso delle radiazioni. Sul quantum di calore che si va a dare a un tessuto, io dico che si può essere anche abbastanza larghi e non esser molto fiscali per quanto riguarda le temperature ottenute. In pratica si è visto che, se noi riscaldiamo un tessuto a 41,5°C per un'ora e mezza, l'effetto biologico è equivalente al riscaldamento a 43°C per 35 minuti. Per cui, allungando i tempi, visto che è metodica che non dà effetti collaterali, è possibile ovviare all'inconveniente di una termometria non particolarmente curata, che è un problema reale dell'ipertermia, che però non è un problema principale. Non vorrei che diventasse un ostacolo all'utilizzazione dell'ipertermia. Dal punto di vista scientifico noi abbiamo l'obbligo di andare a vedere la temperatura precisa; dal punto di vista clinico pratico, a mio avviso, molto meno. Per quanto riguarda Galeotti, mi diceva che ha trattato dei casi molto avanzati, penso di capire. Per quanto riguarda la nostra esperienza, i risultati migliori sono quelli che abbiamo ottenuto trattando il preoperatorio. Quando noi abbiamo ottenuto una riduzione di massa con l'ipertermia, con la perfusione, con una metodica non immunodeprimente, il chirurgo ha avuto il lavoro più facile e il risultato finale è stato sicuramente maggiore; per cui esiste, sicuramente, a livello del peritoneo, come diceva Galeotti, il problema delle grosse masse - e sulle grosse masse l'ipertermia non può fare molto, agisce soprattutto sulle masse di dimensioni modeste, a livello peritoneale - per cui la perfusione è indicata nei casi meno avanzati, soprattutto. Poi, si possono ottenere dei risultati soddisfacenti anche in casi avanzati, però questi avvengono un po' per caso. È stata pubblicata l'anno scorso una casistica di un gruppo giapponese, in cui la sopravvivenza nel tumore allo stomaco avanzato, dopo chirurgia, è raddoppiata con l'utilizzazione dell'ipertermia, rispetto al gruppo controllo. Quindi c'è sicuramente un vantaggio e, per l'esperienza che abbiamo noi, i vantaggi sono soprattutto quando noi trattiamo i malati non in fase avanzata e, per quanto riguarda i malati chirurgici, in fase preoperatoria. Questo sicuramente è un'indicazione precisa per le neoplasie addominali. Nel libro affermo che la chemioterapia dà un'immunodepressione misurabile a dieci anni di distanza: purtroppo è vero, la chemioterapia e la radioterapia danno dei segni di immunodeficienza che sono documentabili in laboratorio anche dopo dieci anni. Questa è la ragione per cui in molti dei pazienti che sopravvivono dopo chemioterapia si sviluppa un secondo tumore. Per esempio, i malati di linfoma, guariti per il linfoma, in una percentuale abbastanza elevata di casi, a distanza di anni sviluppano un secondo tumore. Questo è dovuto proprio al fatto che la chemioterapia induce una immunodepressione. La competizione non è tra chemioterapisti e non chemioterapisti. Io sono nato chemioterapista, facevo l'ematologo e ho ottenuto le prime remissioni complete nei linfomi e nelle leucemie nel 1970, sembravano dei miracoli. Poi, purtroppo questi miracoli non si sono ripetuti quando abbiamo cercato di curare i tumori al polmone, per esempio. Sono nato chemioterapista, però la chemioterapia ha dei pregi, ha dei limiti e ha delle controindicazioni nette. Se io vedo una persona di trent'anni con un tumore al testicolo, non mi sogno di indicargli l'ipertermia come primo approccio terapeutico: deve fare la chemioterapia. Se vedo una persona di settant'anni con delle metastasi da prostata, gli sconsiglio di fare la chemioterapia, perché la chemioterapia più che danno non gli può fare. Fa la sua ormonoterapia. Quando non risponde più all'ormonoterapia, fa l'immunoterapia e fa l'ipertermia, e cerca di tirare avanti la sua esistenza nella maniera migliore possibile. Questa è la filosofia che ci ha guidato e ci guida, e credo che il futuro dell'oncologia sia il futuro di utilizzare sempre di più e nella maniera sempre più integrata le varie discipline insieme. Dobbiamo imparare che il radioterapista non deve fare il radioterapista, ma deve fare il radioterapista in collaborazione con l'oncologo o con il chirurgo, con il chemioterapista, con l'ipertermista, con chi può aiutare questo malato. E si deve necessariamente andare verso un'integrazione tra le varie discipline, questo è il futuro necessario per quanto riguarda l'oncologia. Allo stato in cui siamo, l'immunoterapia è una storia che va avanti da molti anni e, sicuramente, è importante avere una buona reattività immunitaria nel malato. Una immunoterapia specifica dei tumori è problematica, perché i tumori sono molto diversi uno dall'altro. È molto più pensabile che ci sia una immunoterapia di tipo aspecifico, cioè una stimolazione immunitaria di base che rinforzi il maniera generica le difese organiche dell'organismo. Questo è possibile ottenerlo, ci sono gli strumenti per ottenerlo e questa è una strada che è già aperta, insomma. Degli esempi ce ne sono molti; per esempio: il tumore del colon risponde meglio alla chemioterapia quando si associa l'evanisolo, il tumore della vescica risponde alla terapia con BCG o con interferone. L'interferone è attivo in un particolare tipo di leucemia. L'interferone e l'interluchina sono attivi in alcuni casi di tumore renale. Ci sono molte indicazioni che l'immunoterapia nelle sue varie forme può essere attiva, però si tratta sempre di immunoterapia non specifica, di immunoterapia aspecifica. Che l'immunità sia importante, è sicuramente importante. Il malato tumorale che non ha una reattività immunitaria buona non ha la possibilità di rispondere a nessuna cura. Questa è l'esperienza nostra. Per quanto riguarda la presunta predominanza dei fattori genetici su quelli immunitari, nei pazienti trattati con chemioterapia, assolutamente non sono d'accordo. La riprova del fatto che l'immunità è il dato importante è che lo stesso fenomeno dell'incidenza di neoplasie a distanza si ha nei pazienti sottoposti a trapianto d'organo, nei quali, per fargli accettare il trapianto, viene fatta una terapia immunodeprimente e, quando sopravvivono, nel 15, nel 20, nel 25% dei casi sviluppano a distanza una malattia tumorale. Il nesso è sicuramente tra immunodepressione e sviluppo della seconda malattia. Indipendentemente da questo, queste sono discussioni tecniche che possono continuare fino a domani, insomma. Il fatto è che probabilmente la strategia di aggressione alla malattia tumorale dev'essere rivista da parte dei medici, perché i fenomeni recenti ci dicono che alla fine di un atteggiamento dogmatico della medicina c'è la rivolta popolare, per cui la strategia dei tumori è una strategia che probabilmente dev'essere rivista. Non son tanto d'accordo sulla statisticocrazia. Se noi abbiamo l'obiettivo di dire qual è l'indicazione terapeutica ottimale, è chiaro, non c'è ragione di dubitare che si devono fare delle statistiche su grandi numeri. Se noi siamo in una fase in cui non abbiamo delle idee chiare e i risultati non sono molto incoraggianti, credo che abbiamo l'obbligo, dico proprio l'obbligo, di considerare il caso singolo, cioè l'evoluzione anomala tipica di una malattia; consideriamo il malato che è guarito, bisogna andare a chiedersi perché quel malato è guarito, perché ha risposto bene alle terapie, cioè quel caso singolo, atipico, che lo statistico di solito elimina nella valutazione, invece quello va visto. Non dimentichiamoci che nel passato, in un passato che era stato illustre, c'è stato un certo signor Golgi che s'è preso il premio Nobel, perché ha individuato la malaria in tutte le sue fasi e ha individuato anche la terapia studiando pochissimi casi. Il concetto moderno di una medicina che si affida a criteri matematici è valido, ma è valido soltanto quando noi abbiamo individuato quali sono i criteri per valutare una malattia. Quando noi non siamo in grado in pratica di statistiche per il tumore al polmone, faccio un esempio banale. Di statistiche per le terapie del tumore al polmone, ne sono state fatte a centinaia. Il risultato è che oggi il malato di tumore al polmone muore esattamente come moriva 40 anni fa. Quindi, dobbiamo sforzarci di fare un atto di fantasia e di dire: quando il malato non è chirurgico, non è operabile radicalmente all'inizio, lo trattiamo in questa maniera, in quest'altra e in quest'altra. Dov'è la risposta che dà dei risultati biologicamente interessanti? E concentrare forse i nostri sforzi in quella direzione. Luigi Corti: Radioterapia e ipertermia L'uso dell'ipertermia in ambito oncologico rientra nel contesto dell'ampliamento dell'uso delle radiazioni ionizzanti e non ionizzanti in oncologia. In sostanza, se noi vediamo lo spettro generale delle radiazioni, ci accorgiamo che le radiazioni ionizzanti, cioè le tradizionali radiazioni per l'uso in oncologia, hanno un piccolo sito nell'ambito più generale. Tutto il resto è radiazione definita non ionizzante. Noi tutti sappiamo che è ampiamente utilizzata in medicina, vedi la fisiatria, vedi la diagnostica per immagine, e quindi anche in terapia oncologica. Si è costituito, nel nostro dipartimento, un centro, proprio per lo studio e l'uso delle radiazioni non ionizzanti in oncologia. Due afferenti di questo centro sono proprio il dottor Galeotti e il dottor Rossi, e direi che bisognerebbe citare anche gli altri venti reparti che, nelle varie specialità, si dedicano all'utilizzo di queste tecnologie. Passiamo brevemente a elencarle. La tecnologia base di nostro impiego è la tecnologia laser, in tutti gli spettri, dal visibile al non visibile, e andiamo a ricavare lo spazio dedicato all'ipertermia radiante, la più tradizionale, quella dove si impiegano le microonde, le radiofrequenze, gli ultrasuoni, in casi particolari, e la luce infrarossa. Il nostro indirizzo, in questo ambito, non è solo confinato al trattamento, quindi alla distruzione del tumore, associato più o meno a tecniche di tipo tradizionale, ma anche alla cura delle complicanze. Infatti, c'è una piccola sezione dedicata all'impiego delle radiazioni laser che sfruttano piccole quantità di energia e quindi paragonabili ad un modesto incremento ipertermico, ma che energetizzano la cellula e producono un effetto bio-stimolante, per cui favoriamo la riparazione di tessuti che hanno avuto complicanze del tipo post-radiante o post-chemioterapico o post-chirurgico. Il nostro contesto applicativo riguarda le radiazioni. Le radiazioni sono "quanti" di energia, quindi cose certe e matematiche. Quello che potremmo dire di più filosofico, è che queste radiazioni potevano essere utilizzate ed espresse in termini precisi, sistematici per migliorare la qualità di vita del paziente oncologico che va curato. La cura non è sinonimo di guarigione. Può essere di estremo aiuto per la cura e, quindi, il passaggio di questa malattia. In realtà, noi diciamo che di diabete non si guarisce, ma che il diabete si cura; quindi, così, con questa filosofia, noi dobbiamo avvicinarci anche all'ambito dei tumori. Il problema, visto che io sono legato alla fisica delle radiazioni, non è così facile, perché il sistema operativo, parliamo di ipertermia, è particolarmente complesso. Noi dobbiamo garantire un controllo di qualità nell'erogazione della energia e quindi produrre un effetto ipertermico per un certo numero di minuti, tradizionalmente trenta minuti, a una temperatura costante di 43°C. Effetto biologico è la produzione di alcune sostanze, tali che possano distruggere selettivamente la cellula neoplastica. Quindi, primo, controllo di qualità nell'erogazione dell'energia e continuamente monitorare durante il trattamento la temperatura, non la temperatura teorica, ma all'interno del tumore. Il complesso, il sistema che noi abbiamo qui a Padova, ha varie possibilità di erogazione: quella esterna, quella endocavitale e quella interstiziale. Ora, per rilevare la temperatura, c'è bisogno che ci sia un termometro - termistore, termocoppia, fibre ottiche - in sostanza un vettore che rilevi la temperatura all'interno del tumore o nel tessuto sano e, quindi, nell'unità di tempo, ci dia un monitoraggio completo di quello che facciamo. Questo è, dicevamo, un controllo di qualità certo e sicuro. Noi sappiamo che in questo tempo produciamo un aumento di temperatura che arriva a 43°C, per esempio, e che abbiano una certezza di un effetto fisiologico. Queste premesse così semplici, da dire e da comprendere, non sono sempre rispettate poi nella pratica di tutti i giorni, perché, come si diceva, c'è una biologia diversa tra un soggetto e l'altro, c'è anche una distribuzione della dose diversa, c'è un fattore vascolare diverso, c'è una biologia del tumore diversa, quindi non è così semplice applicare un controllo di qualità delle radiazioni in un quadro poi clinico, oncologico, che è più complesso. Direi che, dal punto di vista filosofico, il nostro accesso è quello di migliorare la qualità di vita e, con l'ipertermia, si ha il miglioramento della qualità di vita se si ha anche una riduzione della massa tumorale, quindi diminuisce il dolore da compressione, e si ha la possibilità che il paziente possa uscire e avere un rapporto di relazione. Una delle ottimizzazioni dell'effetto oncologico dell'ipertermia è quello di associarla ad altri presidi; come diceva il professor Pontiggia, questi sono energizzati dall'aumento della temperatura. Altro punto importante è che la ipertermia ha un'azione diretta in quelle cellule che noi definiamo ipossiche, e cioè sono quelle stesse cellule che, a distanza di tempo, ti daranno la recidiva, ti daranno la metastasi a distanza; sono cellule che si chiamano in "quiescenza", cioè con un ciclo cellulare fermo: l'esempio più classico è la spora. La spora, che poi manifesterà, per esempio, il Clostridium tetani, e quindi l'infezione tetanica, è una situazione latente presente nel terreno, che per anni può essere in questa situazione; appena si creano le condizioni ideali per la crescita, si sviluppa. Potrebbe essere anche che l'aspetto soggettivo del paziente possa contribuire a questa evoluzione e quindi anche lo stato immunitario. Più è presente lo stato immunitario, più questa cellula quiescente è contenuta. Appena ci sono fattori di diversità, può esplicare la sua crescita e, quindi, metastasi e recidiva. Concluderei brevemente questa mia breve relazione dicendo anche che la nostra casistica è abbastanza importante, perché, nell'arco di questi ultimi sette anni, solo con l'ipertermia, escludendo le altre tecniche interventistiche che, sempre con l'uso del calore, noi utilizziamo per via transcutanea, tipo il trattamento delle metastasi epatiche con le fibre ottiche laser o altre tecnologie invasive, considerando quindi solo l'ipertermia esterna, noi abbiamo una casistica di oltre 150 casi nelle patologie, principalmente nelle recidive a parete toracica del cancro alla mammella, nei sarcomi recidivi, nel melanoma localizzato sulla cute o in metastasi linfonodali, e nel linfonodi del colon.
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