Uno sguardo ai meccanismi della mente

Inside Neuroscience

6 dicembre 2007 - 9:47 pm

Una questione di forma

Come si diceva nel post di presentazione di questo blog, la bioinformatica gioca un importante ruolo nelle neuroscienze. Ho deciso quindi di scrivere questo post per tutti i nostri amici bioinformatici (e non).
Lo spunto nasce da una lettera a Nature che stavo leggendo tempo fa: Unique features of action potential initiation in cortical neurons – Nature 2006.

Premetto che l’articolo è piuttosto complesso ed entra in dettagli che credo non interessino ai più, ma quello che voglio far vedere è come sia possibile usare (nel bene o nel male, starà a voi decidere…) la bioinformatica per investigare i processi biologici del nostro cervello.
Prima di addentrarci nel problema specifico credo sia necessario fare una piccola introduzione: i neuroni nel nostro cervello comunicano fra di loro utilizzando scariche elettriche controllate, chiamate potenziali d’azione generati dal passaggio di ioni attraverso la membrana del neurone. Centinaia, se non migliaia di studi hanno analizzato nei minimi dettagli come vengano generati i potenziali d’azione, quali canali siano coinvolti, quali siano le cinetiche di questi canali e via dicendo. E qui entra in gioco la bioinformatica: se siamo in grado di usare questi dati per costruire un modello informatico di un neurone, possiamo riprodurre virtualmente un potenziale d’azione ed ottenere informazioni sul rapporto fra, per esempio, la sua forma ed i canali ionici che lo generano.
Tutto inizia con gli studi di Allan Hodgkin ed Andrew Huxley, che nel 1952 generarono il primo modello matematico di propagazione del potenziale d’azione, studio che garantì loro il premio Nobel nel 1963. Il modello di Hodgkin ed Huxley è basato su dati raccolti negli assoni giganti del calamaro e consiste di una serie di equazioni differenziali che permettono di rappresentare la generazione di un potenziale d’azione in una cellula eccitabile.
Negli ultimi 50 anni, tuttavia, questo processo è stato studiato più approfonditamente e si è venuti a scoprire che non tutti i potenziali d’azione sono uguali. L’eterogenicità è principalmente dovuta ai diversi canali espressi da diversi tipi di neuroni: giusto per fare un esempio, sono state identificate più di 100 subunità per i canali al potassio! Ciascun neurone, poi, può esprimere vari tipi di canali per lo stesso ione, quindi il numero di parametri da contare in un modello matematico diventa presto molto alto (solo per i canali di membrana si raggiungono facilmente 15 o 20 termini).

Arriviamo quindi al punto dell’articolo: gli autori hanno registrato potenziali d’azione della corteccia cerebrale in vivo ed in vitro, li hanno poi comparati con quelli generati da un modello che sfrutta le equazioni di Hodgkin ed Huxley e hanno trovato varie differenze tra la situazione sperimentale e quella derivata dal modello. In particolare la forma della fase ascendente del potenziale d’azione è differente così come il valore dell’onset potential, cioè il potenziale a cui inizia la rapida depolarizzazione della membrana, che è molto più variabile nella situazione reale che non nel modello. Questi problemi non riescono ad essere risolti semplicemente cambiando i parametri del modello, a meno di non andare ad usare valori assolutamente non fisiologici.
Queste possono sembrare piccolezze, ma non è così: i neuroni, infatti, “leggono” diversi parametri dei potenziali d’azione. La forma del potenziale d’azione può incidere ad esempio sul rilascio di neurotrasmettitori alle sinapsi e, più in generale, la forma contribuisce a generare diversi firing patterns, ossia diversi “motivi” nella generazione dei potenziali d’azione, che possono essere generati ad esempio a diverse frequenze, in continuo o in gruppi più o meno lunghi (bursts), in modo regolare o irregolare. Tutte queste variabili permettono la comunicazione di diversi stimoli da parte della stessa cellula utilizzando un solo sistema.
Gli autori dello studio propongono quindi un modello rivisto che invece modella bene le caratteristiche mancanti nel modello Hodgkin-Huxley. Il problema è che questo nuovo modello implica che i canali al sodio voltaggio-dipendenti che sono alla base della trasmissione del potenziale d’azione si aprano in modo cooperativo (cioè, l’apertura di uno favorisce l’apertura di quelli attorno). Ovviamente, non c’è alcuna prova sperimentale del fatto che ciò avvenga in un vero neurone!

Insomma, alla fin della fiera questo studio mostra come si possano derivare modelli matematici partendo dai dati sperimentali, smontare gli stessi modelli con altri dati sperimentali, per costruire così un nuovo modello che genera nuove teorie (non provate). Il prossimo passo, immagino, dovrà essere quello di accettare o smentire questo nuovo modello con altri dati sperimentali, grazie a quel magnifico processo chiamato metodo scientifico.

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  • fuliggians - 10 dicembre 2007 # 1

    guarda, la mia esperienza mi dice che questo è sempre un approccio molto pericoloso, farsi condurre negli esperimenti da modelli che si accordano meglio ai dati sperimentali a disposizione è un approccio abbastanza debole. Primo perchè il modello alternativo che si propone è sempre indicativo delle “speranze” del ricercatore, secondo perchè esisteranno sempre N modelli che modello ugualmente bene il fenomeno e che alla base possono avere da fenomeni fisiologici opposti a quello proposto, oltre M altri modelli matematici che lo modellerebbero meglio. Te lo dice un pessimo bioingegnere che ha speso ai tempi della tesi quasi 2 anni modellando il segnale neurale rilevato da una fRMI di risposta al movimento di un dito (stiamo parlando quindi di un “macro” evento con evidente facilmente riscontrabili). E nonstante tutto alla fine non si riusciva a proporre un modello univoco che fosse uno. :-(
    Tutto questo per dire che l’approccio che hai descritto, è tipico della system biology, ma che in qualche modo è anche il suo limite. Tantissimi ricercatori approcciano le più varie problematiche come hai detto, ma i più non si discostano da esso (personalmente penso che la ragione sia che molti di essi non sono addentro alla matematica come dovrebbero per fare veramente bene il loro lavoro di modellazione).
    Naturalmente questa è una piccola critica costruttiva al “metodo”, non al tuo post, che mi ha dato la scusa di sfogare la mia anima ing per una volta! :-)

  • fuliggians - 10 dicembre 2007 # 2

    ops, noto ora che certe righe della mia reply sono proprio scritte da cani, errori e quant’altro. Sorry.

  • nico - 11 dicembre 2007 # 3

    Sono d’accordo con quello che dici, personalmente non sono un grandissimo fan di molti modelli matematici, o meglio, dell’uso che viene fatto di molti modelli.
    Un modello è sempre un modello, cioè una rappresentazione semplificata della realtà, quindi non ho troppi problemi sul fatto che non sia esattamente IDENTICO alla realtà. Il problema è: può un modello essere anche predittivo (come propongono gli autori del paper che citavo) oppure no?

    Hai ragione, cambiando lo spazio dei parametri è possibile far venire fuori qualsiasi cosa… ed è possibile modellare la stessa cosa in molti modi diversi, ma non è detto che questo voglia dire che il modello è sbagliato. Il nostro cervello è pieno zeppo di circuiti ridondanti, magari il modello trova diverse soluzioni perchè in effetti ci sono diversi modi di ottenere lo stesso output (mi sa che scriverò un post a riguardo…).

    Ciò detto, sono il primo a dire che non mi fiderei mai di un’evidenza data esclusivamente da un modello matematico senza un supporto di prove non “virtuali”…

  • Neuroscience - 17 dicembre 2007 # 4

    Sono d’accordo con nico,

    la generazione di un modello matematico che descrive il processo in vitro o in vivo secondo equazioni mi sta bene purché sia sostenuto da formule che prescindono dai dati sperimentali. Esempio trovare lo stato di minimo energeto tra tutte le possibili conformazioni che una piccola molecola può avere. Questo esperimento si può fare a prescindere da dati sperimentali seguendo solo le formule della fisica di Einstein. In questo caso i dati sperimentali si accordano con quelli predetti. E’ poi un altro discorso correggere queste formule con dei dati sperimentali per avere dei valori sempre più precisi.

    Per me è diverso il discorso se trattiamo un fenomeno per ottenere dei dati utilizzabili in formule matematiche che approssimano i dati ottenuti come nel caso dell’articolo. In questo caso l’affidabilità di tale formula è molto limitata al modello poiché si basa su un determinato tipo di esperimento… se si cambia il tipo di esperimento o alcune condizioni la formula potrebbe o no rispondere ai nuovi dati sperimentali. E’ difficile fare la strada al contrario, ovvero fidarsi di un modello basato su dati sperimentali e poi tentare di applicarli per ottenere dei nuovi dati.

    Tutto è possibile, anche che il modello matematico semplifichi qualcosa che è già di per sé sotto gli occhi del ricercatore, però la statistica ci insegna che è più probabile il contrario, ovvero che i nuovi dati sperimentali daranno un modello matematico sempre più complesso che risponde nuovamente ai nuovi dati.

    Per me questo articolo dà la possibilità di ottenere diverse nuove tesi, e quindi lavori scientifici, tentando di dimostrare tale teoria nuova… magari esce qualcosa di davvero interessante.

    Pasquale