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Vola la pillola senza brevetto

Il progetto, nato in ambito informatico, comprende un «sito-laboratorio» in cui biologi e chimici possono inserire le conoscenze acquisite e i risultati delle loro esperienzeUn metodo per superare i copyright delle industrie e permettere l’accesso alle cure, soprattutto di malattie tropicali, a milioni di persone che non possono sostenere alti costi

L'open source è stato finora un termine spesso confinato al mondo informatico e a coloro che gravitano attorno ad esso.
La pratica di costruire un progetto in modo aperto a chiunque voglia apportare un contributo è infatti nato nell'ambito dello sviluppo del software - e lì è restato per molto tempo. Adesso invece il «sorgente aperto» sembra potersi insinuare perfino in un settore da sempre teso alla gelosa custodia del segreto industriale quale la ricerca farmaceutica. Questo almeno crede un crescente numero di membri della comunità scientifica che vedono nell'innovazione open source una metodologia operativa che può superare gli ostacoli posti dai brevetti all'uso dei farmaci da parte di milioni di persone che non possono permettersi i relativi alti costi.

Certamente lo credono Stephen Maurer e Arti Rai, scienziati del diritto rispettivamente a Berkeley e alla Duke Law University, nonchè Andrej Sali, docente di Scienze biofarmaceutiche all'Università della California. I tre studiosi hanno infatti lanciato la Tropical Disease Iniziative (Tdi; www.tropicaldisease.org) ovvero un «sito-laboratorio» in cui biologi e chimici possono inserire volontariamente e a beneficio di tutti le proprie conoscenze, i risultati delle proprie ricerche o i dati acquisiti su alcune patologie.

In particolare il focus è, come traspare dal nome del progetto, sulle malattie tropicali, tradizionalmente «dimenticate» dalle grandi aziende farmaceutiche al punto che solo l'1% dei nuovi farmaci riguardano la cura di malattie tropicali, come la malattia del sonno africana, la febbre di Dengue e le leishmaniosi.

Una disattenzione che si spiega facilmente con lo scarso potere di acquisto dei circa 500 milioni di esseri umani che sono affetti da quelle patologie. Gli studi e le ricerche che scaturissero da questo approccio e mostrassero delle potenzialità verrebbero poi presi in carico dalle cosiddette «Virtual Pharma» (società no-profit di venture capital per progetti farmaceutici) e infi ne appaltati - sulla base della migliore offerta (quindi del minor costo) - ad aziende farmaceutiche per la finalizzazione dello sviluppo e la produzione. Verrebbero così remunerati, come giusto, i produttori ma nessuno potrebbe vantare - e tanto meno capitalizzare, con le relative ricadute sul prezzo - brevetti o esclusive. Più o meno quello che già oggi accade con i cosiddetti «farmaci generici». Per evitare tentazioni di ogni sorta, infine, l'intenzione di Tdi è quella di pubblicare i risultati delle proprie ricerche, rendendole di fatto di pubblico dominio.

Già, ma perché un ricercatore dovrebbe devolvere lavoro e dedizione a progetti che poi non possono essere coperti da brevetti? In nome di una remunerazione «intangibile» ma importante in questo come in altri campi, dicono i promotori dell'iniziativa; come già accade nell'informatica - dove l'open source ha dato vita a fenomeni anche di grande rilevanza economica, si veda il sistema operativo Linux - la moneta in questo caso sono l'apprezzamento e la considerazione nel proprio settore, l'affinamento delle proprie abilità e, elemento nient'affatto secondario, una reputazione da spendere presso potenziali datori di lavoro e committenti.

Ma il metodo della condivisione potrebbe aprire altri scenari interessanti, oggi preclusi dalla configurazione convenzionale del settore farmaceutico. In particolare, l'approccio open source potrebbe rivelarsi utile nel campo dei test di farmaci non più coperti da brevetto e usati per applicazioni diverse da quelle per le quali si è chiesta la registrazione. È opinione di molti scienziati che molti dei principi attivi esistenti da tempo potrebbero rivelarsi utilissimi anche per patologie differenti da quelle per i quali sono stati sviluppati.

Gli esempi in questo senso non mancano ma nessuno si sobbarca l'onere della prova perché poi le possibilità di proteggere la «scoperta» sarebbero minime. Da qui l'idea di un professore della Sloan School of Management del Massachusetts Inst itute of Technology, Eric von Hippel, di sfruttare l'esperienza empirica costruita giorno per giorno da migliaia di medici e pazienti che, rispettivamente, prescrivono e prendono medicinali per usi diversi da quelli riportati sul «bugiardino», ma per i quali ormai è assodata l'efficacia (per certe malattie si stima che questo sia il caso per la metà delle prescrizioni). Un network open source di volontari medici e pazienti, è la tesi di von Hippel, può fornire dati ed esperienze sugli usi «fuori etichetta», creando di fatto un corpo di test clinici che aiuti ad ottenere, abbattendone i costi, l'approvazione formale per l'utilizzo di certi medicinali in patologie diverse da quelle per cui sono state originariamente concepite.

Rendendo così legittimo ciò che oggi non è solo e soltanto per mancanza di convenienza da parte delle società farmaceutiche.




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