Autismo e Mutismo elettivo
La denominazione “mutismo elettivo” fu coniata da Tramer nel 1934 per indicare un particolare disturbo psico-mentale per il quale il bambino, pur sapendo parlare, decide di non farlo: parla solamente in determinate situazioni o con certe persone o soggetti. Fabiano (F.), per esempio, parla in maniera sciolta, vivace e con tono alto, solo quando gioca con i compagni, mentre Franceschino (Fch.) racconta le sue esperienze. Di scuola e/o sociali, solo chiudendosi in bagno con il suo cagnolino.
Il problema psico-patologico non riguarda però solo il linguaggio in quanto si mettono in evidenza altre caratteristiche per le quali erroneamente viene assimilato all’autismo:
- il rapporto interpersonale genera un alto tenore di tensione e di ansia che porta ad un blocco psichico;
- sensazioni profonde di incapacità inibiscono anche lo sviluppo motorio seppure in alcune esperienze può risultare eccellente (F. fa gare di nuoto, ma non riesce a saltare; solo la terapia l’ha sbloccato in gran parte anche se resta in lui una forte difficoltà ad iniziare un esercizio nuovo);
- l’eloquio è scarsissimo (non stabilisce un linguaggio comunicativo), parla a monosillabi (per lo più: si-no) e con tono di voce flebile;
- la comunicazione è profondamente inibita anche nell’espressione grafica;
- si ha l’impressione che sia inceppata tutta la funzione eidetica; i pensieri non fluiscono regolarmente; le idee non nascono neppure sotto suggerimento o con altri metodi di facilitazione.
L’incidenza di questo disturbo (M.E.) è di 1/1000 e leggermente prevalente nelle bambine; compare nella prima infanzia (3-5 anni); si accompagna ad ansietà sociale, tendenza all’isolamento, a ipersensibilità e a negativismo per cui viene avvicinato alla “fobia sociale”.
Perché si possa parlare di M.E. il disturbo deve essere permanente e va ricordato (C.A. Cilento) come il mutismo transitorio formi parte della sintomatologia della “ansia di separazione” che si evidenzia nella primissima infanzia.
La scuola è il luogo dove si evidenzia maggiormente la difficoltà della parola, soprattutto per la necessità di esprimersi davanti agli insegnanti ed anche ai compagni, seppure nei momenti di ricreazione si possa riscontrare una riduzione delle difficoltà.
Per cercare di fare vincere l’impossibilità ad esprimersi, non bisogna “fare pressioni”, “punire”, “costringere” o cercare di corrompere con rinforzi. Questi metodi non servono ed anzi possono peggiorare la relazione e, quindi, i sintomi.
Sono controproducenti anche i sorrisini, gli atteggiamenti preferenziali, eccessivi entusiasmi per qualche piccolo successo. Gli incitamenti generano frustrazioni ed accentuano le opposizioni.
Il trattamento del M.E. non è per nulla facile, richiede diversi anni di psicoterapia relazionale (per es. S.A.S. ed E.I.T.), dovendosi provvedere alla riorganizzazione delle forze adattive dell’IO e ad una adeguata strutturazione del Sé.
Da un punto di vista psico-dinamico, il M.E. risulta una problematica le cui caratteristiche sono pre-edipiche ed in parte anche decisamente edipiche.
La figura paterna è decisamente arcaica, onnipotente, castrante e distruttiva, ma anche quella materna non risulta del tutto consolatoria dal momento che, seppure venga riferita con amore (io sposerò la mia mamma) neppure con lei il bambino riesce a liberarsi, a parlare o ad essere propositivo.
L’aspetto simbiotico avvicina il M.E. alla “psicosi simbiotica” di Mahler nella quale, però, manca la pregnanza del valore simbolico della parola e, al contrario, assume una dominanza speciale la “folie a deux” che include poderosamente la madre.
Nel M.E. si evidenzia che il blocco è fobico, dominato dalla paura di crescere e, sotto lo stimolo della terapia, emergono atteggiamenti oppositivi ed aggressivi, soprattutto nei confronti del padre.
Nel tentativo di facilitare la relazione è controproducente ridurre l’ambito di impegno, limitarsi a poche attività nelle quali il bambino, dopo aver sperimentato la situazione, si trova a suo agio e riesce a comportarsi adeguatamente. È necessario impegnarlo costantemente, senza forzarlo, ma non cedendo alle difficoltà.
Naturalmente i più gravi problemi sorgono sempre nella scuola e a casa quando bisogna affrontare le obbligazioni per preparare le lezioni, i compiti e le interrogazioni. L’equilibrio da raggiungere è sempre difficile anche perché i genitori (soprattutto il padre) tendono ad essere impositivi.
Per questo la terapia deve agire ampliando il più possibile il gradiente delle attività, spostare tutto l’impegno sull’iniziativa personale che porta ad autosoddisfazione, ma anche a fare accettare momenti di sviluppo, di crescita, di disimpegno autonomo.
Utili sono anche le attività espressive, di disegno e di teatro, oltre che i momenti di psicoterapia individuale di tipo classico (verbali ed analitici).
Spesso il M.E. si accompagna a enuresi notturna (cosa che sottolinea la debolezza delle difese e gli atteggiamenti oppositivi) che deve essere affrontata con pazienza e con un controllo stretto delle ore in cui il bambino deve essere svegliato e accompagnato ai servizi.
Per il disturbo di M.E. è stato anche invocato un meccanismo di tipo familiare che risalirebbe addirittura ai nonni ed ai bisnonni. Non è veramente il caso di prendere a prestito interpretazioni junghiane quando tutto e proprio tutto può essere risolto ed affrontato tenendo conto dei normali meccanismi quotidiani: non c’è bisogno di disturbare gli astri.
Sicuramente il M.E. (che a volte viene anche denominato “selettivo” come se il mutacismo fosse l’unico sintomo, lasciando indenni tutti gli altri ambiti funzionali) deve essere affrontato precocemente e da specialisti avvezzi a trattare i disturbi più o meno pervasivi dello sviluppo.
Bisogna ricordare che il trattamento, seppure cominci in forma individuale, deve passare rapidamente al piccolo gruppo, utilizzando i più svariati metodi e senza rinunciare alla riabilitazione di tipo cognitivo.
Importante è anche il sostegno ai genitori poiché non diventino troppo ossessivi (a volte pensano che si tratti di un disturbo biologico per il quale non c’è nulla da fare) e, soprattutto, perché continuino sempre a dare il massimo dell’appoggio e che seguano le indicazioni che sorgono, come consigli, dall’esperienza terapeutica.
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