Trauma e memoria
Nello studio della malattia di Alzheimer abbiamo osservato la presenza, nell’inconscio, di una “memoria spuria” che abbiamo chiamato “nucleo profondo persecutorio”.
Si è potuto confermare che in più del 90% dei casi, almeno un anno prima della comparsa dei primi segni della malattia (disturbi mnesici) i pazienti hanno subito un “fatto traumatico” con caratteristiche particolari.
Non si tratta mai di una esperienza di lutto che provoca reazioni depressive, ma di un vissuto che colpisce profondamente l’organizzazione psichica, disorganizzandola. Il trauma viene riferito come “impatto o urto” che va ad interferire con il “senso profondo di sé”, dell’inviolabilità dell’ Io e la struttura stessa della personalità.
Lo studio sui pazienti Alzheimer ha messo in evidenza che questi traumi possono essere di diversa tipologia: accuse infamanti; perdita del lavoro; senso di perdita del ruolo sociale o familiare; paura di aver perduto il sostegno insostituibile del marito; perdita del senso positivo del sé; ecc.
Questi vissuti traumatici, agendo su una personalità fragile (per es. anziani oppure soggetti con personalità ossessiva), inducono cambiamenti profondi che restano racchiusi in una “memoria traumatica” che il paziente non riesce a escludere dai propri meccanismi mentali che ne risultano disorganizzati.
Il processo dementigeno è stato messo in relazione con un tentativo di escludere dalla memoria il “nucleo persecutorio”, ma senza successo, così che quello che il soggetto riesce a mettere fuori sono parti della propria memoria o parti della struttura psichica.
Con la terapia (E.I.T. – terapia di integrazione emotivo-affettiva) si è potuto osservare che i miglioramenti portano anche a far riaffiorare (rappresentare o commentare) il fatto critico originario che, quindi, può essere considerato come causa scatenante della malattia.
Il meccanismo patogenetico è ancora poco chiaro, ma si è anche parlato di un meccanismo psicosomatico che ha come grilletto il nucleo di Meynert che è situato nella parte bassa del tronco encefalico (fa parte della sostanza innominata che si trova nelle vicinanze del globo pallido e della sua via di scarica l’ansa lenticolare) ed è attivo sul controllo del flusso sanguigno della regione limbica e prefrontale.
Queste osservazioni, che sono state confermate dalle recenti esperienze di ingegnerizzazione, dimostrano che i disturbi da ansia, che vanno ricercati nella psiche, hanno comunque un correlato importante nei circuiti nervosi e nell’attività dei neurotrasmettitori che, nel caso specifico del nucleo di Meynert, interessa soprattutto l’acetilcolina e l’enzima che la metabolizza: la acetilcolinesterasi.
Ricerche attuali hanno evidenziato l’importanza del ruolo dell’ippocampo e dell’amigdala nella formazione della memoria e delle reazioni emotive e ricerche sugli animali hanno confermato il ruolo essenziale dell’amigdala nell’acquisizione della cosiddetta paura condizionata che ha la caratteristica di restare fortemente ancorata e, quindi, difficilmente eliminabile.
Sono tre le principali aree cerebrali che intervengono nella patofisiologia dei disturbi da stress postraumatico: l’amigdala, il cingolato anteriore e l’ippocampo.
Una risposta di paura si può verificare anche quando nell’ambiente non sia presente una minaccia reale ed inoltre si verificano risposte esagerate anche in presenza di stimoli poco significativi. In veterani di guerra è stato rilevato un aumento del flusso sanguigno nella parte sinistra dell’amigdala durante l’evocazione di esperienze traumatiche. La risposta eccessiva allo stress postraumatico è stata dimostrata anche nel cingolato anteriore attraverso una riduzione significativa dell’attività.
Queste osservazioni hanno permesso anche di evidenziare come le persone particolarmente ansiose attivano aree deputate all’ansia e alla paura a discapito delle aree responsabili dei processi cognitivi.
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