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Autofagia : la nuova strategia biologica per la longevità

Le ricerche sulla longevità degli esseri viventi sono svolte nell'ambito della biogerontologia, quel settore della biologia che si occupa di conoscere i meccanismi naturali dell'invecchiamento, meccanismi che determinano la durata della vita degli organismi (a partire dagli invertebrati fino agli esseri umani). Informazioni su tali processi(e sull'eventuale possibilità di modificarli per rallentare l'invecchiamento stesso e prolungare l'esistenza degli individui) coinvolgono una molteplicità di discipline biologiche (quali la genetica, la fisiologia,la biochimica, la medicina generale ed altre ancora) e i risultati degli studi condotti (protratti ormai da più di un secolo generalmente su cellule animali o su interi organismi) sembrano convergere globalmente su due posizioni generali, apparentemente antitetiche: il ruolo della predisposizione genetica all'invecchiamento e l'influenza dell'ambiente esterno sulla durata della vita. Mentre nel primo caso sarebbero i geni propri di un organismo, con il loro funzionamento, i principali responsabili della sua velocità di invecchiamento (e quindi della sua durata lunga o breve di esistenza), nella seconda prospettiva a determinare le differenze individuali di longevità conterebbe di più lo stile di vita condotto dall'organismo (cibo, malattie, inquinamento, stress, ecc.

.). Poiché attualmente la maggioranza degli studiosi tende ad integrare tra loro (anziché separare) le due proposte citate, numerosi esperti concordano sul fatto che a stabilire la durata effettiva di vita di un essere vivente contribuiscano (in misura variabile) sia la sua peculiare componente genetica che il suo modo di vivere (e quindi di alimentarsi, fare attività fisica, e così via).

Lo studio delle componenti genetiche della longevità si arricchisce di giorno in giorno di nuove informazioni e scoperte(come quelle riguardanti l'enzima telomerasi), ma dimostra sempre di più la grande complessità del problema (l'elevato numero di geni "in gioco"), e, a discapito delle facili speranze di incrementare la durata di vita attraverso manipolazioni genetiche mirate farmacologicamente, emergono (almeno per il momento) pericolosi effetti collaterali non trascurabili e di non facile controllo. Quindi, fino a quando non saranno noti in dettaglio i ruoli di tutti i geni coinvolti nel processo di invecchiamento, gli interventi mirati a modificarne il funzionamento (a fini pro-longevità) appaiono ancora prematuri e potenzialmente pericolosi.

Sull'altro versante, invece, oltre mezzo secolo di ricerche hanno evidenziato la prevalenza di due fattori fondamentali in grado di incrementare la durata della vita: l'attività fisica condotta dagli organismi e la riduzione delle calorie assunte con la dieta quotidiana (la restrizione calorica). La maggior parte delle sperimentazioni animali sugli effetti dell'attività fisica (di tipo moderato) concorda sull'effetto benefico,in termini di salute e longevità, dell'esercizio fisico : l'incremento di tale attività si tradurrebbe in una minor incidenza di malattie metaboliche, circolatorie e di altro tipo (oltre ad una maggior longevità) nei soggetti che la praticano, rispetto a quelli più sedentari.

Risultati simili emergono dagli studi (principalmente su roditori e primati) sulla restrizione calorica: animali a dieta ristretta di oltre il 30% delle calorie normalmente introitate ai pasti risultano significativamente più sani e più longevi di quelli che si nutrono liberamente.

Se per lungo tempo gli scienziati non sono riusciti a chiarire nei dettagli i meccanismi biologici alla base di questi due paradigmi, recentemente in Italia (a Pisa) il gruppo di ricerca del professor Ettore Bergamini ha contribuito significativamente a svelare il mistero: i benefici per la salute e la longevità legati alla riduzione delle calorie della dieta risultano intimamente collegati ad un fenomeno insito in tutte le cellule eucariote (comprese le nostre), cioè l'autofagia cellulare. Tale autofagia, e per la precisione la macroautofagia, è un fenomeno di riciclo e di riparazione delle componenti danneggiate della cellula (proteine citoplasmatiche, membrane ed organuli) a causa dell'incessante azione lesiva operata dai radicali liberi (lo stress ossidativo). Tali radicali, chimicamente instabili ed altamente reattivi, sono sostanze prodotte inevitabilmente in seguito al normale metabolismo cellulare, alle infiammazioni,allo stress, all'inquinamento, eccetera e risultano in grado di attaccare e danneggiare seriamente, se non efficacemente contrastati, le strutture della cellula stessa (come le macromolecole e gli organelli). Quest'ultima può evitare di soccombere accelerando il suo ritmo di divisione (riproduzione), ma giungerà così più rapidamente alla condizione di senescenza (il numero di divisioni possibili è limitato) e quindi alla morte prematura. La macroautofagia risulta così un sistema di salvataggio: le proteine citoplasmatiche ossidate, gli organelli vecchi e danneggiati (come i mitocondri, le "centrali energetiche" delle cellule) e altre strutture importanti vengono così isolate dal resto del citoplasma cellulare e inglobate in vescicole membranose dette autofagosomi. Successivamente tali autofagosomi vanno a fondersi nel citoplasma con i lisosomi (organelli pieni di enzimi idrolitici "digestivi") i quali riversano così il loro contenuto negli autofagosomi stessi e permettono la demolizione (digestione) enzimatica del materiale lì precedentemente sequestrato. In tal modo le cellule possono, ad esempio, degradare le proteine danneggiate (proteolisi autofagica) riciclando poi molti "materiali da costruzione "(gli amminoacidi) a scopo energetico o ricostruttivo. Tali cellule, quindi, avendo riparato i danni ed essendo rinnovate nelle loro strutture fondamentali, possono rallentare il ritmo di divisione e quindi vivere più a lungo. La macroautofagia viene normalmente indotta in modo lieve durante le prime 24 ore di digiuno (una forma di restrizione calorica a breve termine ) degli animali (ratti da laboratorio) prevalentemente negli organi interni (quali il fegato), ma viene soppressa totalmente nel periodo immediatamente successivo ai pasti. L'équipe di Bergamini ha scoperto che l'autofagia tende comunque ad affievolirsi naturalmente all'avanzare dell'età dei animali (forse per il progressivo inevitabile accumulo di danni da stress ossidativo), ma essa può essere intensificata notevolmente anche negli animali più anziani attraverso l'uso (accoppiato al digiuno ) di farmaci particolari detti antilipolitici, in grado di bloccare la liberazione di grassi nel sangue (a scopo energetico) dal tessuto adiposo. Roditori trattati farmacologicamente in tal modo sono risultati molto meno soggetti alle patologie età-correlate (problemi cardio-vascolari, diabete, tumori) rispetto agli animali della stessa età non trattati che continuavano a nutrirsi a volontà (i controlli). Le prime sperimentazioni del metodo sono partite anche su volontari umani e, a dire dello stesso Bergamini, mostrano risultati molto incoraggianti.

Per quanto riguarda l'esercizio fisico, alcune evidenze sperimentali mostrano che l'attività fisica moderata (vigorosa, ma senza sforzi eccessivi) è in grado di indurre la macroautofagia nelle cellule muscolari scheletriche, mantenendole quindi sane ed efficienti e contrastando, ad esempio, il fenomeno della riduzione della loro sensibilità all'azione dell' ormone insulina (caratteristica patologica presente in molte persone anziane), fenomeno precorritore del diabete e, in generale,dell'invecchiamento cellulare.

In sostanza la scienza ora è in grado di rivalutare pienamente antichi precetti salutistici (un breve digiuno saltuario e un'attività fisica frequente e moderata) da svolgere a qualunque età e da utilizzare, a fini preventivi, fin da giovani, per cercare di mantenersi in salute e per rallentare, almeno in parte, l'invecchiamento stesso.




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