Il valore aggiunto
L’introduzione e l’accettabilità di nuove tecnologie nella
nostra società viene sempre preceduta da una serie di considerazioni generiche
ma decisive, che possono essere “Quale valore aggiunto apporta? Chi si avvantaggia di tale valore
aggiunto?”. Le questioni appaiono ancora più incombenti in quei casi in cui non
esiste un punto di vista comune su cui stendere un’adeguata valutazione del
rapporto rischi/benefici derivante. A tale ragionamento non sfuggono nemmeno le
biotecnologie.
L’occasione del dibattito ha generato numerose opinioni
diverse, sulle cui posizioni si sono schierate due distinte controparti. Da un
lato troviamo promotori del libero commercio mondiale e grossi colossi
industriali, dall’altro piccole imprese locali e organizzazioni dei consumatori
che chiedono l’applicazione del principio di precauzione nei confronti di
queste nuove tecnologie. Vengono chiamati a misurarsi paesi industrializzati
ricchi di tecnologie con paesi poco sviluppati ma ricchi di risorse genetiche.
Le biotecnologie innovative comprendono un
complesso di tecniche che permettono di utilizzare la materia vivente […] per
la produzione di beni e servizi. Vengono distinte dalle
biotecnologie tradizionali in quanto permettono di manipolare in modo accurato
e altamente selettivo organismi viventi, partendo dalla comprensione del
genoma. Nascono negli anni ’70 e rappresentano l’estensione applicativa
dell’ingegneria genetica. La definizione di meccanismi di regolazione
dell’espressione genica e la scoperta di enzimi di restrizione, uniti al
bagaglio di conoscenze apportato dalla genetica e dalla biochimica, hanno
stabilito il know-how necessario per
poter mettere a punto prodotti biotecnologici già a partire dai primi anni.
Se da una parte tutti gli strumenti fondamentali per
lavorare erano disponibili, dall’altra mancava ancora una visione completa di
tutte le potenzialità che tale tecnologia avrebbe potuto mettere in atto. Di
conseguenza sarebbe stato difficile fissare criteri che permettessero di
operare in piena sicurezza. In seguito a tale limitazione la comunità
scientifica stessa si è autoimposta la volontaria sospensione delle attività di
ricerca inerenti l’ingegneria genetica fintanto che non venissero stilate delle
regole entro cui operare (convegno di Asilomar, 1975). Una volta definite le
normative si è assistito alla piena ripresa della ricerca. Le tecnologie del
DNA ricombinante si sono affermate in modo preponderante sulla ricerca di base
in campo biologico; la possibilità di applicarle alla produzione ha promosso la
nascita dell’industria biotecnologica. Tale industria si è rivelata però
immatura e precoce: faceva affidamento più sulle aspettative relative ai
successivi sviluppi di mercato che sui risultati reali. D’altra parte solo
imprese economicamente affermate avrebbero potuto investire grandi capitali ad
alto rischio. Si è così assistito (e si assiste ancora) ad un passaggio diretto
di nozioni dall’ambiente accademico verso colossi multinazionali, operanti
perlopiù nel settore chimico.
Nel corso degli anni le competenze tecnologiche si sono
progressivamente concentrate nelle mani di un numero limitato di grandi imprese
multinazionali. Il fenomeno desta preoccupazione: potrebbe venire ad
instaurarsi un tentativo di controllo di tipo monopolistico sul rilascio di
prodotti biotecnologici. C’è da considerare inoltre la questione
dell’accessibilità alle risorse genetiche naturali e di come su tali risorse si
stia tentando di apporre sistemi di protezione brevettuale, ponendo la
prerogativa dell’interesse economico sul libero scambio di idee quale occasione
di sviluppo reciproco. Vale la pena di riflettere, allora, su come tutelare la
biodiversità, per prevenire l’instaurarsi di circoli viziosi in cui si rimane
costretti a dipendere esclusivamente dalla centralità di un potere in mano a
troppo poche aziende.
Secondo un’indagine d’opinione promossa dalla Commissione
Europea, e condotta in più sessioni durante il corso degli anni ’90 il
cittadino europeo presenta maggiore diffidenza nei confronti delle
biotecnologie, rispetto ad altri campi di innovazione tecnologica quali
l’informatica, le telecomunicazioni o le esplorazioni spaziali. La differenza
di giudizio su tali tecnologie potrebbe risiedere, a parer mio, anche nel fatto
che l’informatica e le telecomunicazioni sono tecnologie che offrono prodotti
su cui la persona può agire e interagire attivamente; si viene ad instaurare
così una sorta di sensazione rassicurante di controllo su ciò che tale
tecnologia mette a disposizione (è sufficiente premere un tasto per spegnere il
televisore o il computer). Per quanto riguarda le esplorazioni spaziali si
tratta di una tecnologia osservata con un certo distacco, in quanto risulta
difficile sentirsi coinvolti direttamente. Nel caso delle biotecnologie il
cittadino che usufruisce dei suoi prodotti è essenzialmente un soggetto
passivo; il timore del consumatore può nascere così dall’insoddisfazione di non
poter interagire attivamente sul prodotto stesso. Un’altra motivazione che
alimenta discredito nei confronti delle biotecnologie risiede nel fatto che
l’ingegneria genetica opera in un ambito di sviluppo che riguarda la vita
stessa e interviene sulla generazione e sulla modificazione di organismi
viventi; mantenere il controllo sul processo dell’evoluzione potrebbe essere un’espressione efficace (anche se
non accurata) della linea di pensiero alla base dello sviluppo di nuovi OGM.
Le biotecnologie richiamano profondi archetipi culturali, ben radicati e talvolta innati nelle tradizioni di
ogni società, che contraddistinguono il rapporto dell’uomo con la natura. La
sensazione percepita dalla persona comune viene ben evocata dagli autori del
saggio quando affermano che è come se le nuove
tecniche genetiche permettessero di violare l’aleatorietà intrinsecamente
connessa ai naturali processi di riproduzione […] L’ingegneria genetica invece
consente di introdurre un’attitudine pianificatoria e progettuale
nell’intervento umano sulla materia vivente. Tale affermazione
può essere facilmente ridimensionata e smorzata nei toni all’interno di una
comunità scientifica consapevole dei propri mezzi e dei propri limiti. Ma
sull’opinione pubblica gli archetipi prima citati esercitano un’influenza
preponderante, invitando a prendere alla lettera tale pensiero. La cattiva
reputazione però non viene percepita in ugual modo in tutti i settori di
applicazione delle biotecnologie. Il cittadino europeo si dichiara indifferente,
se non addirittura favorevole, all’impiego delle biotecnologie in campo
terapeutico, diagnostico o di risanamento ambientale; risulta di parere
negativo invece quando vengono applicate in campo alimentare. Questo sembra
dovuto al fatto che al cittadino non risulti chiaro quale vantaggio egli stesso
possa trarre da una tale innovazione.
La diffidenza è stata ulteriormente amplificata dal
succedersi di tutta una serie di scandali e situazioni mal gestite quali i casi
della mucca pazza, dei polli alla diossina o del vino al metanolo. Sebbene
tutti questi esempi non abbiano nulla da spartire con le biotecnologie
innovative hanno comunque messo in luce come l’industrializzazione in campo
alimentare abbia “denaturalizzato” i processi produttivi che ne stanno alla
base (nel caso della BSE ha suscitato non poca preoccupazione il fatto che i
bovini, animali erbivori, venissero foraggiati con farine di origine animale).
Le biotecnologie innovative
Per biotecnologie si intende l’uso integrato della microbiologia, della
biochimica, della genetica e dell’ingegneria chimica allo scopo di ottenere
applicazioni di microrganismi, altri sistemi cellulari o loro sottostrutture
per la produzione di composti di vario interesse o per terapie cliniche.
Federazione Europea di Biotecnologia,
1982
Biotecnologia è qualsiasi applicazione tecnologica, che utilizza
sistemi biologici, organismi viventi o prodotti derivati, per produrre o
modificare prodotti o processi per uso specifico.
Organismo Geneticamente Modificato è un organismo il cui materiale
genetico è stato modificato in modo diverso da quanto si verifica in natura con
l’accoppiamento e/o la ricombinazione genetica naturale.
Decreto Legislativo 3/3/1993
n°91
Le molecole di DNA ricombinante possono essere:
- molecole di
DNA costruite, unendo segmenti di DNA sintetico o naturale a porzioni di DNA
presente in organismi viventi;
- molecole di
DNA, che derivano dalla proliferazione delle cellule modificate il cui DNA era
stato preparato secondo la voce precedente;
- molecole di DNA
totalmente sintetico, che codificano per la produzione di peptidi o proteine di
interesse farmacologico.
NIH guideline 2001
Le biotecnologie rappresentano un’insieme di tecniche note
fin da tempi antichi. L’uomo, per la produzione di alimenti, si è sempre
servito di fermentazioni o altri processi di trasformazione microbiologica.
Storicamente la tecnica è stata affinata su conoscenze di tipo empirico: il
passaggio di nozioni ha da sempre rappresentato una parte del bagaglio
culturale che distingue una comunità dall’altra. Solo verso la fine del ’600,
con l’invenzione del microscopio e la scoperta dei microrganismi, si sono
potuti introdurre miglioramenti guidati da un approccio sistematico, secondo il
metodo scientifico. Tra gli esempi più noti dell’applicazione di uno sviluppo
in senso analitico delle biotecnologie si può citare la realizzazione del
metodo di pastorizzazione (in cui si è partiti dall’isolamento di microrganismi
quale agenti causali dei processi di deperimento studiati).
La comprensione di meccanismi biologici sotto una chiave di
interpretazione scientifica è stata il presupposto necessario per poter attuare
quello che oggi verrebbe definito il processo di scale-up: il passaggio dalla sperimentazione e dalla
produzione artigianale alla produzione industriale su larga scala. Su questa
evoluzione delle biotecnologie (fino ad ora ancora “tradizionali”) si è venuta
ad innestare l’ingegneria genetica. Il concetto di gene e il dogma un
gene, una proteina, che si sono venuti a
stabilire nella seconda metà del XX secolo, sono stati fortissimi propulsori di
questa fusione di conoscenze. Accanto alla comprensione fine dei meccanismi
biologici la manipolazione del DNA avrebbe consentito di intervenire in modo
quasi chirurgico, tramite l’introduzione/modulazione di un numero definito di
geni.
Partendo da questo presupposto le biotecnologie innovative
hanno ottenuto forti investimenti in campo terapeutico e diagnostico. In questi
settori si è assistito ad un rapido sviluppo e distribuzione di numerosi prodotti.
La chiave del successo in campo medico potrebbe risiedere nel fatto che
l’ingegneria genetica ha offerto una possibilità di azione completamente nuova
e alternativa alla terapia farmacologia classica basata su prodotti di sintesi
chimica. Con l’avvento della produzione di proteine ricombinanti si può dire
che si è venuto a ridurre il grado di invasività della terapia: vengono
impiegate sostanze che sono già parte integrante dei meccanismi fisiologici che
si intende ripristinare. Al contrario la terapia farmacologica tradizionale fa
leva su prodotti completamente estranei al nostro organismo, esogeni, che sono in grado tuttavia di interagire con il
loro target (spesso competendo
con le controparti endogene già
presenti in noi).
Le biotecnologie innovative hanno influenzato pesantemente
anche l’industria alimentare. L’applicazione industriale di processi di
lievitazione, fermentazione alcolica, produzione di aceto (solo per citare
pochi esempi) è stata possibile solo grazie all’isolamento e all’ingegnerizzazione
di ceppi di microrganismi specifici. Per alcuni prodotti quali l’acido citrico
(conservante e aromatizzante) o il glutammato (esaltatore di sapidità, tipico
delle salse di soia) l’estrazione tradizionale è stata esclusivamente
soppiantata dalla messa a punto di biotrasformazioni pianificate e inserite in microrganismi selezionati ad
hoc. La vanillina impiegata dall’industria
dolciaria proviene in gran parte dalla sintesi chimica; lo sfruttamento delle
biotecnologie può permettere l’impiego di un microrganismo adatto in grado di
trasformare uno scarto industriale (come la cellulosa) in un prodotto ad alto
valore aggiunto (la vanillina appunto), utilizzando metodi decisamente più
compatibili per l’ambiente. Questa applicazione delle biotecnologie innovative
passa però sottotono nell’opinione pubblica, non suscita lo stesso
sensazionalismo che si potrebbe ottenere con la terapia genica o dalla
produzione di proteine ricombinanti.
In campo agroalimentare le biotecnologie hanno subito
maggiori attenzioni nel momento in cui sono state applicate su organismi
superiori come piante e animali. Con questo
passaggio si rivela in tutte le sue sfumature la preoccupazione scaturita dal
fatto di voler promuovere inevitabilmente il rilascio deliberato di organismi
geneticamente modificati nell’ambiente, spingendosi oltre il canonico sistema
chiuso del fermentatore.
Inoltre non ci si trova più a lavorare su sistemi
unicellulari, relativamente “semplici” (non per questo totalmente prevedibili
però). Non è più sufficiente focalizzare l’attenzione delle ricerche sul
singolo prodotto genico; diventa necessario, anche se può apparire estremamente
complesso, definire e stabilire come venga influenzato il contesto entro cui il
prodotto genico viene espresso. Un esempio che possa chiarire questo concetto
potrebbe essere ben rappresentato dal caso del pomodoro Flavr Savr™: mediante tecniche di ingegneria
genetica, è stato inattivato il gene che codifica le proteine responsabili
della marcescenza, e il risultato è un pomodoro con una durata di conservazione
praticamente illimitata. […] La modificazione genetica induce semplicemente il
rallentamento della decomposizione delle pareti cellulari […] Questo implica
che l’alimento è solo apparentemente fresco mentre il suo valore nutritivo può
essere prossimo allo zero.
Piante tecnologiche
Per quanto possa apparire riduttivo le biotecnologie
innovative, in campo agricolo, hanno consentito di accelerare e ottimizzare il
processo di incrocio e selezione di organismi (piante e animali) che meglio
soddisfano le esigenze di produzione, sia in termini di qualità che di quantità.
La novità più vistosa, ma che suscita maggiore perplessità e apprensione,
risiede nel fatto che le biotecnologie innovative hanno consentito di
trasferire in un organismo caratteristiche tipiche di specie anche filogeneticamente lontane (estremamente diverse). Solo in seguito a
tale approccio è stato introdotto il neologismo transgene: strutturalmente, infatti, non vi è differenza tra
gene e transgene. Tenendo ora da parte i vantaggi e i rischi reali che possono
derivare dall’applicazione di tecniche di transgenesi occorre a questo punto
chiarire il concetto di gene. Nell’immaginario collettivo spesso il gene viene
percepito come un’entità indissolubilmente associata all’organismo che la
contiene, una parte integrante ed esclusiva del singolo individuo. Per questo
motivo l’immagine di una pianta ingegnerizzata con un (trans)gene proveniente
da un fungo, o anche da un animale, evoca inevitabilmente un forte senso di
“innaturalità”. È mia convinzione che occorra assumere un atteggiamento più
oggettivo: un gene è solo riconducibile ad una sequenza di DNA, ha solo facoltà
di poter esprimere una (o più, se consideriamo eventuali meccanismi di splicing) proteina,
macromolecola biologica composta nella sua essenza dalle stesse
identiche unità costitutive di ogni essere vivente, gli amminoacidi. Solo a
queste condizioni ritengo sia possibile sostenere una corretta valutazione di
come il transgene possa inevitabilmente interagire con l’ambiente in cui si
trova ad essere; per corretta intendo priva di condizionamenti.
Quello che spinge l’industria agroalimentare a investire
nello sviluppo di OGM è la prospettiva di poter ottenere varietà con
caratteristiche migliorate in termini di resistenza e produttività. Esistono
quindi piante resistenti all’uso di particolari erbicidi a basso impatto
ambientale (es. glifosato), consentendo l’eliminazione mirata di erbe
infestanti. Altre piante sono invece resistenti all’attacco di parassiti o
resistenti a particolari malattie infettive. Se da una parte tutto ciò consente
di abbattere – o comunque limitare – l’impiego di prodotti chimici,
dall’altra l’agricoltore si trova costretto a pagare il plusvalore tecnologico;
il miglioramento di varietà mediante tecniche di manipolazione genetica ha
offerto l’occasione alle aziende distributrici di brevettare le sementi ed
imporre un sovrapprezzo che compensi il lavoro di ricerca condotto.
Oltre a questi iniziali obbiettivi , ci si è spinti verso la
realizzazioni di piante gm di seconda generazione. Una buona parte dello
sviluppo di questa categoria di OGM è orientata verso la produzione di functional
food, cibo funzionale. In questo caso si
cerca di indirizzare l’applicazione delle conoscenze non più verso un
miglioramento della produttività in sé, ma verso l’utilizzatore finale del
prodotto (il consumatore). In quest’ottica si è cercato di offrire prodotti che
potessero fornire un maggiore apporto nutrizionale. Otterremo quindi frutta e
verdura con un maggior contenuto di vitamine e sali, cereali contenenti più
fibra, oli con una proporzione maggiore di grassi insaturi.
Gli OGM di seconda generazione aprono la strada ad una nuova
tipologia di terapia, che viene definita come nutraceutica. L’intenzione consiste nel veicolare, attraverso la
dieta, la somministrazione di farmaci o vaccini. Il potenziale offerto è
enorme: è possibile abbattere tutti i costi inerenti a problemi di asetticità,
limitando al minimo l’onere da sostenere nell’applicazione di vaccinazioni di
massa. Di conseguenza diventerebbe più agevole fornire un’assistenza sanitaria adeguata.
Le piante vaccino potrebbero essere coltivate sul posto: in questo modo vengono
evitati problemi logistici ed economici legati alla necessità di trasportare i
preparati su lunghe distanze. Inoltre, essendo commestibili, sarebbero
facilmente somministrabili e avrebbero una migliore compliance (accettabilità da parte del paziente). Accanto ai functional
food lo sviluppo di piante gm di seconda
generazione comprende altre sfere d’azione che vanno dalla possibilità di
coltivare su terreni poveri o inquinati al risanamento stesso di tali terreni (bioremediation), all’ingegnerizzazione di piante per utilizzi non
prettamente alimentari (produzione di combustibili e materie plastiche).
Uno sviluppo a più vie
Lo studio, sempre più avanzato, di pattern di regolazione genica ha portato allo sviluppo di
metodi alternativi all’inserimento di nuovi geni. Essi si propongono di
modulare l’espressione del genoma vegetale senza dover inserire alcunché di
esogeno nell’organismo, per quanto possibile. Alla base vi
è la nozione secondo cui la forza dominante nell’evoluzione delle piante
deriverebbe dai cambiamenti non tanto delle sequenze proteiche ma piuttosto dai
meccanismi di regolazione dei geni. La condizione di non dover
inserire alcun gene agevolerebbe il problema di accettazione degli OGM da parte
del consumatore. È indubbio che questa tecnica rappresenta una opportunità in
più all’introduzione di nuove varietà, ma non deve essere considerata
l’alternativa che possa sostituire completamente la biotecnologia basata sulla
transgenesi. È vero che si potrebbero sviluppare comunque piante dal contenuto
nutritivo migliorato, ma non sarebbe in alcun modo possibile mettere a punto
cibo terapeutico arricchito in prodotti completamente estranei al mondo
vegetale (quali possono essere i vaccini).
Bisogna inoltre considerare che la pressione selettiva
esercitata dall’evoluzione dipende essenzialmente dall’habitat in cui l’organismo si trova a vivere naturalmente;
per questo motivo l’intervento sulla sola modulazione del patrimonio genetico
non sempre risulta sufficiente a garantire un adeguato processo di adattamento
ad ambienti ostili o completamente nuovi. Questa tecnica non assicura di poter
allestire colture su terreni aridi o poveri di nutrienti, né di condurre
progetti di risanamento ambientale. Occorre tenere presente che la modulazione
dell’espressione di un gene già presente può incidere sul profilo di
espressione genomica tanto quanto può farlo l’inserimento di un gene esogeno.
Di conseguenza non può essere escluso a priori che l’omeostasi globale di un organismo non ne venga influenzata.
Nonostante tutto la tecnica proposta porta alla luce una
questione fondamentale: non è possibile considerare le biotecnologie innovative
solo sulla base della scoperta e isolamento di nuovi geni. È necessario
definire anche come tale gene possa venire espresso. In questo senso deve
venire considerata con la stessa importanza la scelta dell’opportuno promotore
alla base della regolazione genica. L’adozione di promotori inducibili può rendere possibile l’espressione del prodotto
genico in precisi periodi temporali e in determinate zone dell’organismo,
limitando al massimo il rischio di eventuali interazioni tanto indesiderate
quanto imprevedibili.
Alcune piante dispongono di un meccanismo di riproduzione
asessuata in cui il corredo cromosomico della cellula uovo non viene segregato
ma si mantiene intatto: l’apomissia. La
prole consiste in esatti cloni della pianta genitrice. In natura tale strategia
è presente in alcune specie che vivono in ambienti estremi: si tratta di un
"trucco evolutivo" che consente di preservare combinazioni alleliche
particolarmente favorevoli per l'habitat in cui vivono. L’apomissia potrebbe
venire sfruttata nella messa a punto di nuove piante gm: lo scopo consiste nel
limitare la perdita progressiva del transgene (e quindi pure dei suoi effetti)
nel passaggio da una generazione all’altra. L’introduzione di meccanismi
apomittici potrebbe rappresentare pure un vantaggio per i coltivatori dei paesi
in via di sviluppo in quanto consentirebbero di ricoltivare più volte la stessa
pianta senza dover richiedere sementi nuove ogni volta. Le ricerche
sull’apomissia sono condotte in gran parte da gruppi di lavoro di ispirazione
maggiormente filantropica; in una conferenza, tenutasi a Bellagio nel 1998, i
principali centri di ricerca impegnati negli studi sull’apomissia hanno
condiviso la responsabilità di utilizzare i risultati delle ricerche per il
bene dei coltivatori dei paesi più poveri, mettendo un veto morale sulle
possibili opportunità di brevettazione. Attualmente ci si trova però ancora in
fase di sperimentazione: non è stata rilasciata ancora nessuna pianta di
interesse agroalimentare in grado di riprodursi per apomissia. L’eventualità di
poter scegliere l’apomissia alla riproduzione sessuata restringerebbe i
problemi di impatto ambientale, in quanto si potrebbe pensare di sopprimere il
processo di impollinazione. La scoperta stessa dell’apomissia dovrebbe però
mettere in guardia dall’eventuale rischio che un transgene possa integrarsi
stabilmente in piante infestanti sessualmente compatibili.
Riso dorato
Il riso è una tra le piante su cui si sta concentrando una
buona parte degli sforzi in senso biotecnologico. Il motivo risiede nel fatto
che il consumo di riso soddisfa dal 50 all’80% del fabbisogno calorico
quotidiano delle popolazioni che abitano l’Asia; si calcola che nel 2010, in
quel continente, la richiesta di cereali crescerà del 35% rispetto a quella
attuale (secondo l’International Rice Research Institute). Non è difficile immaginare l’importanza di
potenziare i raccolti e migliorare le coltivazioni in loco, talvolta pure in regioni non particolarmente adatte
alla crescita della pianta.
Il riso ha attirato l’attenzione della ricerca tanto nel
pubblico quanto nel privato, incanalando cospicui finanziamenti da parte di
numerose nazioni. Nell’ambito privato si è assistito ad un fatto curioso ed
insolito: aziende che hanno annunciato di avere già a disposizione una prima
“bozza” del genoma del riso hanno rinunciato, per il momento, ad interessi di
natura brevettuale rendendo di pubblico dominio la lettura completa del genoma
al più presto possibile.
Intanto sono già arrivati i primi risultati dalla
manipolazione di alcuni geni, che potrebbero portare a concentrare le energie
della pianta nello sviluppo del seme e a ridurre i tempi di coltivazione
(aumentando così il numero di cicli di raccolto). Il caso più popolare delle
biotecnologie applicate al riso è stato quello del golden rice. Si tratta di una varietà arricchita in beta-carotene
(precursore della vitamina A); la pianta è stata ottenuta con la costruzione di
un percorso metabolico per la sintesi della sostanza, inserendo un pool di 4 geni esogeni predisposti all’assolvimento de
singoli step biosintetici. L’intento sarebbe di introdurre coltivazioni di golden
rice in regioni dove si soffre una carenza
cronica di vitamina A. Secondo i dati diffusi dalle agenzie internazionali
sono circa un milione i bambini che ogni anno muoiono per questa carenza e
circa 300000 coloro che diventano ciechi.
Nel 2004, in Louisiana, è stato portato avanti il primo trial in campo aperto sul golden rice, allo scopo di valutarne le reali performance
agronomiche. Nel 2005 è stata messa a punto una nuova varietà, in grado di
incrementare di 23 volte la produzione di beta-carotene. Al momento nessuna
varietà è ancora disponibile per il consumo umano.
Le biotecnologie innovative offrono una grande opportunità
di ottenere piante supernutrienti e al tempo stesso di ridurre i costi
necessari per ottenerle. La messa a punto di piante arricchite in nutrienti
potrebbe rappresentare un incentivo alla lotta per la prevenzione di parecchie
malattie. D’altra parte, per poter garantire un alto livello di sicurezza, lo
sviluppo di una pianta gm non può essere solo appannaggio dell’ingegneria
genetica. È necessario un lavoro concertato di equipe composte da agronomi,
nutrizionisti, tossicologi, ecologi, che valutino da più angolature il prodotto
di realizzazione tecnica portato avanti da genetisti e biochimici. Tale livello
di organizzazione mostra come le
biotecnologie innovative non possono essere considerate in funzione di
strategie di mercato. Occorre considerare che se i paesi in via di sviluppo
potrebbero aver bisogno di una tale tecnologia non sempre hanno un’adeguata
capacità di spesa per poter sostenere elevati investimenti. Il rischio è
analogo a quanto accade sul piano medico per quanto riguarda i farmaci
orfani (farmaci orientati alla cura di
malattie rare, un mercato troppo di nicchia per poter ammortizzare le spese
sostenute nella fase di ricerca). Esisterebbero tutti i presupposti tecnici per
offrire prodotti in grado di aiutare a risolvere gravi problematiche, manca
però il coraggio di avviare progetti di fronte alla responsabilità di dover
offrire investimenti sicuramente non renumerativi.
L’apomissia, prima citata, rientra tra gli ambiti di studio
del CAMBIA, un centro di ricerca australiano fondato nel 1992 (Center for
the Application of Molecular Biology to International Agricolture). A prescindere dalla singola tecnica vale la pena
menzionare questo centro per la filosofia attorno a cui muove i propri
progetti. Il CAMBIA punta ad un modello di biotecnologie no-profit; viene
perseguito il concetto di tecnologia open-source ovvero accessibile e fruibile liberamente da tutti.
L’obbiettivo consiste nel promuovere e stimolare l’innovazione; venendo a
mancare il vincolo di dover pagare royalties le biotecnologie no-profit offrirebbero a chiunque
la possibilità di impiegare OGM (limitando il budget alle sole spese di
ricerca). Dopo aver constatato la crescente espansione dell’analogo cybernetico
Linux nei confronti della monopolizzante Microsoft, vale la pena di considerare
seriamente la sfida lanciata dagli open-OGM a compagnie come Monsanto e Novartis.
Cosa controllare?
A differenza di quanto accade in un azienda agroalimentare
tradizionale i prodotti biotecnologici distribuiti attualmente devono passare
sotto tutta una nuova serie di controlli, che possono essere riassunti sotto i
seguenti punti:
A.
Identificazione, isolamento e caratterizzazione del gene e di
opportuni segnali di espressione.
B.
Allestimento di un vettore adeguato per l’inserimento del
gene.
C.
Selezione delle piante in cui è avvenuta una integrazione
corretta.
D.
Analisi molecolare delle piante gm (stabilità
dell’integrazione del gene esogeno, espressione della proteina eterologa).
E.
Prove sperimentali in serra.
F.
Prove sperimentali in campo aperto.
G.
Analisi allergologica e tossicologica del prodotto.
Se da una parte c’è accordo sul tipo di controlli che è
opportuno fare il discorso è ancora aperto sulle modalità con cui debbano
essere condotti; a parte alcuni punti manca ancora una precisa e definita
distinzione tra quali siano le responsabilità di cui si devono fare carico le
istituzioni pubbliche (per la tutela del cittadino) e quali siano i controlli
da considerarsi un valore aggiunto, libera iniziativa di ogni azienda
produttrice. Le organizzazioni a difesa dei consumatori e ambientaliste
chiedono l’istituzione di una normativa analoga all’iter condotto per i
farmaci. A mio avviso tale richiesta non avrebbe ragione di essere: gli OGM non
hanno finalità terapeutica (a parte quelli che rientrano nel campo della
nutraceutica). Occorre piuttosto individuare invece quali siano gli eventuali
limiti delle procedure di controllo alimentare esistenti. Non condivido
l’approccio americano dell’applicare a priori il principio di sostanziale
equivalenza; con a priori intendo che un
cibo di origine biotecnologica viene considerato in nulla differente da quelli
tradizionale, sulla base del fatto che l’intervento di manipolazione genetica
non è orientato all’alterazione di proprietà nutritive e/o organolettiche.
D’altra parte non reputo nemmeno opportuno creare un sistema di valutazione del
rischio esclusivo per il cibo transgenico. È auspicabile e ragionevole
pianificare un protocollo di accertamento della sicurezza, ma tale protocollo
dovrebbe essere esteso indistintamente pure a prodotti ottenuti con tecniche di
ibridazione tradizionali, o selezionati attraverso procedure di mutagenesi
indotta. In entrambi i casi ci si trova davanti, tanto quanto negli OGM, a
organismi il cui patrimonio genetico è stato alterato – per non dire
stravolto, nel caso degli ibridi – in funzione di ottenere varietà
presentanti le caratteristiche volute. Su questa linea di principio, ad
esempio, il pompelmo rosa non sarebbe in nulla diverso dal mais-Bt.
La necessità di una normativa ad hoc nasce talvolta dal seguito affermazioni
allarmistiche come l’ingegneria
genetica permette di creare nuove proteine i cui effetti sono sconosciuti e
devono essere attentamente valutati. Effettivamente questa è una
reale potenzialità dell’ingegneria genetica. Ma non è sulla creazione ex
novo di proteine che si poggia lo sviluppo
delle biotecnologie innovative, perlomeno nel settore agroalimentare. Si cerca
piuttosto di andare ad individuare in natura delle caratteristiche che sarebbe
desiderabile trasferire sull’organismo di interesse, quindi si identificano le
proteine coinvolte nella realizzazione di tali caratteristiche (andando a
valutare pure i loro singoli effetti). Alla fine si isolano il o i geni da
trasferire e si va a definire in che modo debbano essere espressi e correlati
reciprocamente. L’imprevedibilità non risiede nell’effetto indotto dalla proteina
in sé, ma nell’intero quadro di interazioni che potrebbero venire ad adattarsi
all’interno dell’organismo ospite. Tale rischio può venire ridimensionato
valutando, proprio sulla base dell’effetto noto della proteina eterologa che si
intende inserire, su quali nodi di cammini metabolici la proteina si va ad
innestare.
Un problema concreto di sicurezza riguarda invece il
fenomeno di mimetizzazione di allergeni.
Talvolta il transgene potrebbe codificare per un fattore scatenante allergie,
su cui il consumatore eviterebbe di imbattersi se ne fosse a conoscenza; quando
l’allergenicità è nota e documentata l’inserimento dei geni responsabili viene
escluso durante la fase di progettazione. Nei casi in cui il prodotto genico in
sé debba essere considerato quale possibile allergene (coinvolto nella
produzione di allergeni o analogo ad allergeni noti) l’etichettatura per gli
OGM sarebbe necessaria. Diventa però scorretto limitarsi ad indicare
l’organismo da cui proviene il transgene, in quanto non tutti i geni provenienti
da esso sono responsabili dell’insorgere di allergie. La legislazione di
parecchi paesi già prevede che si analizzi preventivamente:
· la
fonte da cui è stato ottenuto il transgene
· la
somiglianza del prodotto genico con altre proteine di cui è nota l’allergenicità
· la
stabilità della proteina eterologa al processo di digestione e alla cottura
· gli
effetti del gene esogeno sulla produzione di allergeni endogeni della pianta
ospite
L’efficacia dei controlli è stata dimostrata nel caso di una
varietà di soia in cui era stato integrato un gene di albumina proveniente da
una noce brasiliana. La soia risultava migliorata dal punto di vista
nutrizionale, ma aveva acquisito le proprietà allergeniche dell’albumina. È
stato quindi negato il permesso di coltivazione.
Paradossalmente le piante gm possono addirittura essere
progettate per ridurre il potenziale allergenico degli alimenti. Con
metodologie antisenso e di gene targeting
è stato possibile realizzare prodotti di cui si è venuta a perdere
l’allergenicità originaria.
Sicurezza senza eccesso di zelo
Il caso Pusztai è stato un caso emblematico nella storia
delle biotecnologie innovative; il motivo per cui ho scelta di citarlo risiede
nel come è stata gestita la situazione, non tanto nei fatti specifici. Questa
vicenda fornisce l’esempio di come sia delicato e importante offrire una
corretta informazione scientifica, e di come essa debba essere trasmessa
correttamente all’opinione pubblica evitando al tempo stesso di far leva sulla
suggestione. Emerge quindi la necessità, da parte della comunità scientifica,
di doversi servire di canali mediatici che possano trasmettere una informazione
oggettiva e libera da condizionamenti, sia che vada a favore o contro le
biotecnologie.
Arpad Pusztai, del Rowet Research Institute di Aberdeen, aveva utilizzato piante di patata gm
dotate del gene GNA di bucaneve (codificante una lectina in grado di difendere
il bulbo della pianta da parassiti). Nutrendo alcuni ratti con queste patate
aveva constatato che una tale dieta altera la mucosa intestinale. A partire da
questa osservazione nell’Agosto 1998 il ricercatore è “saltato” direttamente
alle conclusioni, esponendo la discussione dei risultati ottenuti direttamente
sui media popolari. Lo studio non è stato sottoposto alla revisione critica dei
dati e di come siano stati ottenuti; tale revisione è una procedura consolidata
nella letteratura scientifica, e viene condotta da una commissione di esperti (referee) che possono valutare oggettivamente la bontà del
lavoro svolto. La pubblicazione imprudente del lavoro di Pusztai ha generato
forti allarmismi, com’era prevedibile, sostenuti vigorosamente da associazioni
schierate apertamente contro l’impiego delle biotecnologie. L’evento indusse il
Regno Unito a bloccare le coltivazioni di tutte le piante geneticamente
modificate.
Alla fine lo studio venne finalmente passato al vaglio dei referee e venne pubblicato nel 2000 su The Lancet. Lo studio aveva effettivamente dimostrato
l’esistenza di alterazioni a carico della mucosa intestinale e del sistema
immunitario nei ratti. Tuttavia le obiezioni sollevate sono state parecchie. In
primo luogo il regime alimentare stesso a cui erano stati sottoposti i ratti
non era caratterizzato da un’alimentazione bilanciata; di conseguenza anche la
dieta stessa avrebbe potuto in qualche modo incidere sui risultati. Inoltre è
possibile che l’interpretazione dei dati ottenuti sia viziata da
condizionamenti, in quanto l’analisi dei campioni non è stata condotta in
cieco. Su una questione si hanno però evidenze indiscutibili: sulla patata gm
sono state rilevate alterazioni nel contenuto in proteine, amido e zuccheri. La
patata transgenica non poteva essere considerata sostanzialmente
equivalente a quella usata come controllo;
viene quindi ribadito il concetto secondo cui non si può escludere a priori che
l’inserimento di un transgene non abbia alcun tipo di conseguenze sulla
fisiologia generale dell’organismo ospite. Da queste conclusioni non è però in
alcun modo possibile dedurre l’eventuale effetto sul ratto del prodotto del
transgene in sé. Nei due anni successivi nessuno studio ha confermato la
ricerca di Arpad Pusztai.
Allo stato attuale dell’arte credo che serva procedere nello
sviluppo di OGM con decisione, senza però che lo si faccia a scapito della
prudenza. Se non sono ancora stati documentati con chiarezza e precisione veri
e propri rischi per la salute umana è pur vero che non sarà mai possibile
fornire un margine di sicurezza assoluto. Bisogna essere consapevoli che non
esiste tecnologia esente da rischi. È necessario però saper giudicare una
innovazione in prospettiva del rapporto rischio/beneficio.
Si consideri ora l’utilizzo di geni marker per la resistenza agli antibiotici. Tali geni
vengono inseriti nell’organismo assieme al gene esogeno di interesse; con tale
strategia diventa possibile isolare gli organismi che hanno effettivamente
incorporato il transgene. Questa procedura ha suscitato il timore che geni marker possano trasferirsi ed attivarsi in batteri patogeni
della flora intestinale, innescando infezioni resistenti agli antibiotici
convenzionali, più difficili da debellare. Si ammetta ora che sia possibile che
il DNA si preservi integro nell’ambiente del tratto gastro-intestinale (dopo
essere passato attraverso l'ambiente ricco in acido cloridico dello stomaco ed
essere stato attaccato da enzimi intestinali specifici per la sua
degradazione); a questo punto il gene marker, dotato di uno specifico promotore vegetale per la propria espressione, dovrebbe venire
trasferito ed essere attivato in
batteri (oltretutto specificamente patogeni). La frequenza per la mutazione
naturale alla resistenza ad un antibiotico produce già di per sé un numero
cospicuo di batteri resistenti (si pensi solo che la flora intestinale è
costituita da circa centomila miliardi di batteri!); il trasferimento di un
gene marker non costituirebbe
statisticamente un rischio aggiunto. Si tenga conto inoltre che tali geni
prenderebbero il sopravvento solo se ci fosse una reale spinta selettiva
determinata dalla somministrazione dell’antibiotico specifico. Ad ogni modo
l’uso di antibiotici per la selezione di piante è oggi superato da altri
approcci (quali geni marker che
compensino uno specifico fenomeno di auxotrofia).
L’impatto ambientale
Come ho già detto il principale valore aggiunto associato
alle piante gm di prima generazione riguarda la capacità di resistere a
erbicidi e all’attacco di parassiti. Questa strategia, ad una prima analisi,
sembrerebbe portare allo sviluppo di un agricoltura maggiormente ecocompatibile
e a tutela dell’ambiente. L’adozione di organismi gm consente di ridurre
notevolmente l’uso di diserbanti e pesticidi; inoltre potrebbe permettere
l’applicazione di sostanze a basso impatto ambientale o l’espressione, da parte
del transgene, di proteine altamente specifiche e selettive nei confronti dei
propri target (ad es. tossina contro la
piralide) tali da limitare al massimo gli effetti su altri organismi (su
insetti benefici, ma soprattutto sull’uomo). L’evidente risparmio sull’impiego
di sostanze chimiche si ripercuote anche su altri aspetti del processo
produttivo agricolo, consentendo di ridimensionare le spese inerenti al
trattamento e alla lavorazione del prodotto. Ad ogni modo le coltivazioni di
piante gm, per quanto ottimizzate, non possono escludere del tutto l’impiego di
sostanze chimiche.
Una delle maggiori preoccupazioni riguarda il rischio
derivante dal possibile trasferimento di transgeni a varietà selvatiche. Esiste
il potenziale pericolo che possano svilupparsi piante infestanti resistenti
agli erbicidi, a causa dell’ibridizzazione con polline gm. D’altra parte le
piante ibride devono risultare maggiormente competitive nel loro habitat per
poter sbilanciare fortemente l’ecosistema in cui si trovano e/o ridurre la
biodiversità; una competizione vincente dipende dalla presenza di pressioni
selettive che agiscano a favore del transgene. Esiste comunque un ventaglio di
alternative, per poter scongiurare il paventato rischio di deriva genetica:
1) Integrare il transgene nel DNA del cloroplasto
piuttosto che nel nucleo; la maggior parte delle piante trasmette i
cloroplasti per via materna, quindi il polline non sarà gm.
2) Rilascio del permesso di coltivazione solo in zone
abbastanza distanti da piante sessualmente compatibili con la pianta gm.
3) Rendere la pianta maschio-sterile, se necessario
sviluppare in alternativa meccanismi che promuovano la via di riproduzione
asessuata.
Un ulteriore timore è rappresentato dall’espressione costitutiva del transgene. L’esposizione continua alle tossine
prodotte dal transgene potrebbe determinare la scomparsa di insetti (non
nocivi) diversi da quelli che si intende debellare; paradossalmente si potrebbe
favorire anche la selezione di insetti indesiderati resistenti. In questi casi
ritorna utile l’impiego di promotori inducibili, in grado di attivare il transgene solo in seguito a
infezione da parassiti e solo in definiti stadi di sviluppo o in specifici
tessuti della pianta. Un’ulteriore limitazione allo sviluppo di insetti
resistenti, consiste nell’alternare coltivazioni gm a coltivazioni non gm della
stessa pianta. In questo modo viene preservata una popolazione di insetti non
resistenti al transgene, evitando così che quella resistente possa prendere il
sopravvento.
Esiste infine il rischio inerente la riduzione della
biodiversità, a causa della coltivazione di un numero limitato di varietà
ottimizzate. Bisogna tenere presente però che su questo problema non sarebbe
corretto attribuire responsabilità all’introduzione di varietà gm, bensì alla
strategia in sé di monocoltura intensiva.
Quali opportunità per il Terzo Mondo?
L’impiego di OGM non ha avuto solo ripercussioni ambientali,
ma pure di natura socioeconomica. Anche in questo caso si rende necessaria una
corretta valutazione del rapporto rischio/beneficio, soprattutto perché rischi
e benefici non sono necessariamente a carico degli stessi soggetti. Secondo
molti l’impiego di biotecnologie innovative nei paesi in via di sviluppo
potrebbe portare ad una ridistribuzione di benefici e ad un miglioramento del
reddito degli agricoltori, come già accade nei paesi occidentali. In linea di
principio si potrebbero ottenere notevoli passi avanti nella lotta alla
denutrizione, sfruttando la potenzialità di poter coltivare a rese elevate in
situazioni ambientali critiche. Può apparire ovvio come un tale scenario venga
promosso dalle aziende produttrici, che per questioni di interesse economico
necessariamente devono fare propaganda. Tale visione però è condivisa pure da
organizzazioni indipendenti, quali il Nuffield Council on Bioethics, anche se ridimensionata da opportune premesse e
considerazioni del caso.
È ormai noto che la tradizionale agricoltura intensiva è
arrivata ad un livello di saturazione tale da non poter più sostenere
l’incalzante esigenza dell’attuale aumento demografico su scala mondiale. Tale
problema viene ulteriormente amplificato dal fatto che la distribuzione di tale
incremento (concentrato nei paesi in via di sviluppo) non coincide
assolutamente con le proporzioni secondo cui sono distribuite le risorse
agricole. Senza contare che lo sfruttamento intensivo sta progressivamente
esaurendo terreni su cui è possibile coltivare.
L’obbiettivo primario di un piano di bioremediation consiste non solo nello sfruttamento di vecchie
risorse, ma pure nel ripristino di risorse esaurite; da questi presupposti
riparte lo sforzo teso verso la rifertilizzazione di terreni ma anche il
recupero e/o l’allontanamento di inquinanti presenti. La biotecnologia deve
essere però affiancata da una agricoltura che prevenga l’esaurimento di
risorse, attraverso la differenziazione delle colture e la loro ciclazione. Un
punto su cui vale la pena di scommettere sulle biotecnologie innovative risiede
nella possibilità di aumentare ulteriormente le rese. Le premesse fondamentali
per l’attuazione di questa seconda rivoluzione verde ricadono ancora una volta
sul piano politico. È necessario un forte impegno del settore pubblico
che, non essendo condizionato da una pura logica di profitto, è nelle
condizioni ideali per finanziare la ricerca di varietà utili per il Terzo
Mondo, capaci cioè di crescere con poca acqua, molto sole e su terreni poveri e
inquinati. Al tempo stesso bisogna tener conto della necessità di
richiedere l’applicazione di una regolamentazione, nel terzo mondo, a tutela
della sicurezza dei nuovi alimenti introdotti.
La FAO è intervenuta più volte in merito all’introduzione
delle biotecnologie innovative nel campo agricolo. In uno dei suoi ultimi
interventi (Maggio 2004) viene messo in evidenza come la rivoluzione genica
rappresenti un enorme opportunità di riscatto per i paesi poveri. Se le
biotecnologie innovative offrono grandi promesse ai paesi in via di sviluppo,
attualmente solo un numero limitato di agricoltori ne usufruisce. Né il privato
né il settore pubblico ha ancora investito in modo significativo nello sviluppo
di quelle che possono essere definite le colture orfane; si tratta di piante quali miglio o sorgo,
attualmente tra le maggiori fonti di sostentamento alimentare per i paesi
poveri.
Gli agricoltori dei paesi in via di sviluppo potranno
beneficiare dei prodotti biotecnologici solo nel momento in cui essi stessi
potranno avere accesso a termini di profitto. È ancora troppo presto per poter
considerare le biotecnologie agroalimentari attuali uno strumento tale da
garantire una vera ridistribuzione di benefici su larga scala. Nel 2003 il 99%
della superficie coltivata a OGM riguardava solo 4 varietà (mais, soia, colza e
cotone), di prima generazione (resistenza a insetti e/o erbicidi), in 6 nazioni
(Argentina, Brasile, Canada, Cina, Sud Africa, USA).
Nei pochi paesi in via di sviluppo dove le coltivazioni
transgeniche sono state introdotte i piccoli agricoltori hanno già tratto
benefici economici, risparmiando sull’applicazione di sostanze chimiche. In
Cina le aree coltivate a cotone transgenico (resistente all’attacco di insetti)
rappresentano circa il 30% dell’area coltivata a cotone; si è potuto però
constatare un aumento nella resa del 20% superiore rispetto alle colture
tradizionali e un abbattimento dei costi (derivanti dall’uso di pesticidi) di
circa il 70%.
Le biotecnologie possono rilevarsi uno strumento utile, ma
non certamente la soluzione completa dell’annosa questione dello sviluppo
sostenibile. Sarebbe necessario una migliore distribuzione delle risorse
agricole già esistenti; questo passaggio però comporta scelte e decisioni più
di natura politica che di natura tecnica.
Vaccini da mangiare
I vaccini hanno quasi compiuto miracoli nella lotta contro
le malattie infettive: hanno consegnato il vaiolo alla storia e presto dovrebbero
fare altrettanto con la poliomielite. Eppure le campagne internazionali di
immunizzazione hanno tragiche lacune nella distribuzione. Si stima che circa il
20% dei bambini sulla Terra siano ancora esclusi dalle principali vaccinazioni
(difterite, pertosse, polio, rosolia, tetano, tubercolosi), provocando circa
due milioni di decessi ogni anno. La situazione è preoccupante non solo per le
regioni prive di un sistema sanitario, ma per il mondo intero, dal momento che
i viaggi internazionali e il commercio rendono la Terra un luogo sempre più
piccolo. Dopo un appello dell’OMS a sviluppare vaccini poco costosi,
somministrabili per via orale e che non richiedessero refrigerazione si è
delineata la prospettiva di produrre cibi geneticamente modificati, contenenti
il vaccino, da poter essere mangiati quando sia necessario l’inoculo.
I vantaggi sarebbero enormi! Le piante potrebbero essere
coltivate localmente e a basso costo, utilizzando tecniche di coltivazione
standard tipiche di ogni regione. Siccome molte piante commestibili si possono
rigenerare facilmente, si potrebbero in teoria ottenere nuovi raccolti a
ripetizione (posto che sia superato l’ostacolo, posto dalla proprietà
intellettuale, a riutilizzare le sementi). I vaccini “casalinghi” potrebbero
anche evitare problemi logistici ed economici derivanti dal fatto di dover
trasportare preparati per lunghe distanze, mantenendoli freschi sia durante il
viaggio sia a destinazione. I vaccini commestibili non richiederebbero l’uso di
siringhe che, al di là del costo che comportano, possono provocare infezioni se
si contaminano accidentalmente.
Non sono molti i produttori di composti farmaceutici ansiosi
di finanziare ricerche per prodotti mirati principalmente a mercati diversi
rispetto al redditizio Occidente. Governi nazionali stanno sforzandosi di
colmare questa lacuna, ma i tentativi di mettere a punto vaccini alimentari
rimangono ancora sottofinanziati. I vaccini commestibili, derivanti da piante
gm, ovviamente risentono di tutto l’influsso polemico attorno alle
biotecnologie agroalimentari. Bisogna però considerare che tali prodotti sono
pensati esclusivamente per la tutela della salute umana e che le piantagioni
che li producono occuperebbero un’estensione di terreno molto minore rispetto a
quella di altre specie commestibili (ammesso che vengano coltivate all’infuori
delle serre). Inoltre, in quanto farmaci, sarebbero soggetti ad un esame
accurato da parte degli organismi di controllo.
Nel 2004 sono stati avviati in Italia i primi trial su vaccini ottenuti da piante gm (coltivate in
serra); si tratta di pomodori e patate contenent
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