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OGM: opportunità contro accettabilità?

Nessun’altra tecnologia stimola la
riflessione etica come l’ingegneria genetica

Hans Jonas

Questo elaborato vuole offrire uno spunto di riflessione sulle conseguenze etiche, sociali ed economiche derivanti dall'impiego degli OGM, alla luce di una valutazione oggettiva. I punti su cui verterà la discussione sono i seguenti:

A. L'introduzione di OGM nella società occidentale: quale percezione arriva alla gente nei confronti delle applicazioni biotecnologiche? Come tale percezione può influire sulla politica di mercato europea?

7pt; text-indent: -18pt;">B. Impatto ambientale: quali sono benefici e i rischi derivanti dalla coltivazione di OGM, in paragone alle tecniche agroalimentari tradizionali?

C. Accessibilità alla tecnologia del DNA ricombinante: in che modo questa tecnologia può essere distribuita tanto nei paesi industrializzati quanto in quelli in via di sviluppo? Potrebbe istaurarsi, in questo contesto, un rapporto di sudditanza da parte di questi ultimi nei confronti dei primi?

D. Tutela delle risorse naturali: qual è la linea di demarcazione, per quanto riguarda la brevettabilità sul materiale biologico, tra la tutela della proprietà intellettuale e la speculazione economica?

E. Nutraceutica ed effetti sull’uomo: quali sono i motivi che potrebbero portare a segnalare un cibo contenente prodotti gm? Quale sono le potenzialità derivanti da un possibile sviluppo di cibo a fine terapeutico?

L’esposizione degli argomenti trattati verte sulla libera interpretazione del saggio Il conflitto alimentare di F. Terragni e L. Carra, edito dalla Garzanti (2001). Le citazioni dirette estratte dal libro verranno evidenziate in questo stile.


Il valore aggiunto

L’introduzione e l’accettabilità di nuove tecnologie nella nostra società viene sempre preceduta da una serie di considerazioni generiche ma decisive, che possono essere “Quale valore aggiunto apporta? Chi si avvantaggia di tale valore aggiunto?”. Le questioni appaiono ancora più incombenti in quei casi in cui non esiste un punto di vista comune su cui stendere un’adeguata valutazione del rapporto rischi/benefici derivante. A tale ragionamento non sfuggono nemmeno le biotecnologie.

L’occasione del dibattito ha generato numerose opinioni diverse, sulle cui posizioni si sono schierate due distinte controparti. Da un lato troviamo promotori del libero commercio mondiale e grossi colossi industriali, dall’altro piccole imprese locali e organizzazioni dei consumatori che chiedono l’applicazione del principio di precauzione nei confronti di queste nuove tecnologie. Vengono chiamati a misurarsi paesi industrializzati ricchi di tecnologie con paesi poco sviluppati ma ricchi di risorse genetiche.

Le biotecnologie innovative comprendono un complesso di tecniche che permettono di utilizzare la materia vivente […] per la produzione di beni e servizi. Vengono distinte dalle biotecnologie tradizionali in quanto permettono di manipolare in modo accurato e altamente selettivo organismi viventi, partendo dalla comprensione del genoma. Nascono negli anni ’70 e rappresentano l’estensione applicativa dell’ingegneria genetica. La definizione di meccanismi di regolazione dell’espressione genica e la scoperta di enzimi di restrizione, uniti al bagaglio di conoscenze apportato dalla genetica e dalla biochimica, hanno stabilito il know-how necessario per poter mettere a punto prodotti biotecnologici già a partire dai primi anni.

Se da una parte tutti gli strumenti fondamentali per lavorare erano disponibili, dall’altra mancava ancora una visione completa di tutte le potenzialità che tale tecnologia avrebbe potuto mettere in atto. Di conseguenza sarebbe stato difficile fissare criteri che permettessero di operare in piena sicurezza. In seguito a tale limitazione la comunità scientifica stessa si è autoimposta la volontaria sospensione delle attività di ricerca inerenti l’ingegneria genetica fintanto che non venissero stilate delle regole entro cui operare (convegno di Asilomar, 1975). Una volta definite le normative si è assistito alla piena ripresa della ricerca. Le tecnologie del DNA ricombinante si sono affermate in modo preponderante sulla ricerca di base in campo biologico; la possibilità di applicarle alla produzione ha promosso la nascita dell’industria biotecnologica. Tale industria si è rivelata però immatura e precoce: faceva affidamento più sulle aspettative relative ai successivi sviluppi di mercato che sui risultati reali. D’altra parte solo imprese economicamente affermate avrebbero potuto investire grandi capitali ad alto rischio. Si è così assistito (e si assiste ancora) ad un passaggio diretto di nozioni dall’ambiente accademico verso colossi multinazionali, operanti perlopiù nel settore chimico.

Nel corso degli anni le competenze tecnologiche si sono progressivamente concentrate nelle mani di un numero limitato di grandi imprese multinazionali. Il fenomeno desta preoccupazione: potrebbe venire ad instaurarsi un tentativo di controllo di tipo monopolistico sul rilascio di prodotti biotecnologici. C’è da considerare inoltre la questione dell’accessibilità alle risorse genetiche naturali e di come su tali risorse si stia tentando di apporre sistemi di protezione brevettuale, ponendo la prerogativa dell’interesse economico sul libero scambio di idee quale occasione di sviluppo reciproco. Vale la pena di riflettere, allora, su come tutelare la biodiversità, per prevenire l’instaurarsi di circoli viziosi in cui si rimane costretti a dipendere esclusivamente dalla centralità di un potere in mano a troppo poche aziende.

Secondo un’indagine d’opinione promossa dalla Commissione Europea, e condotta in più sessioni durante il corso degli anni ’90 il cittadino europeo presenta maggiore diffidenza nei confronti delle biotecnologie, rispetto ad altri campi di innovazione tecnologica quali l’informatica, le telecomunicazioni o le esplorazioni spaziali. La differenza di giudizio su tali tecnologie potrebbe risiedere, a parer mio, anche nel fatto che l’informatica e le telecomunicazioni sono tecnologie che offrono prodotti su cui la persona può agire e interagire attivamente; si viene ad instaurare così una sorta di sensazione rassicurante di controllo su ciò che tale tecnologia mette a disposizione (è sufficiente premere un tasto per spegnere il televisore o il computer). Per quanto riguarda le esplorazioni spaziali si tratta di una tecnologia osservata con un certo distacco, in quanto risulta difficile sentirsi coinvolti direttamente. Nel caso delle biotecnologie il cittadino che usufruisce dei suoi prodotti è essenzialmente un soggetto passivo; il timore del consumatore può nascere così dall’insoddisfazione di non poter interagire attivamente sul prodotto stesso. Un’altra motivazione che alimenta discredito nei confronti delle biotecnologie risiede nel fatto che l’ingegneria genetica opera in un ambito di sviluppo che riguarda la vita stessa e interviene sulla generazione e sulla modificazione di organismi viventi; mantenere il controllo sul processo dell’evoluzione potrebbe essere un’espressione efficace (anche se non accurata) della linea di pensiero alla base dello sviluppo di nuovi OGM.

Le biotecnologie richiamano profondi archetipi culturali, ben radicati e talvolta innati nelle tradizioni di ogni società, che contraddistinguono il rapporto dell’uomo con la natura. La sensazione percepita dalla persona comune viene ben evocata dagli autori del saggio quando affermano che è come se le nuove tecniche genetiche permettessero di violare l’aleatorietà intrinsecamente connessa ai naturali processi di riproduzione […] L’ingegneria genetica invece consente di introdurre un’attitudine pianificatoria e progettuale nell’intervento umano sulla materia vivente. Tale affermazione può essere facilmente ridimensionata e smorzata nei toni all’interno di una comunità scientifica consapevole dei propri mezzi e dei propri limiti. Ma sull’opinione pubblica gli archetipi prima citati esercitano un’influenza preponderante, invitando a prendere alla lettera tale pensiero. La cattiva reputazione però non viene percepita in ugual modo in tutti i settori di applicazione delle biotecnologie. Il cittadino europeo si dichiara indifferente, se non addirittura favorevole, all’impiego delle biotecnologie in campo terapeutico, diagnostico o di risanamento ambientale; risulta di parere negativo invece quando vengono applicate in campo alimentare. Questo sembra dovuto al fatto che al cittadino non risulti chiaro quale vantaggio egli stesso possa trarre da una tale innovazione.

La diffidenza è stata ulteriormente amplificata dal succedersi di tutta una serie di scandali e situazioni mal gestite quali i casi della mucca pazza, dei polli alla diossina o del vino al metanolo. Sebbene tutti questi esempi non abbiano nulla da spartire con le biotecnologie innovative hanno comunque messo in luce come l’industrializzazione in campo alimentare abbia “denaturalizzato” i processi produttivi che ne stanno alla base (nel caso della BSE ha suscitato non poca preoccupazione il fatto che i bovini, animali erbivori, venissero foraggiati con farine di origine animale).

Le biotecnologie innovative

Per biotecnologie si intende l’uso integrato della microbiologia, della biochimica, della genetica e dell’ingegneria chimica allo scopo di ottenere applicazioni di microrganismi, altri sistemi cellulari o loro sottostrutture per la produzione di composti di vario interesse o per terapie cliniche.

Federazione Europea di Biotecnologia, 1982

Biotecnologia è qualsiasi applicazione tecnologica, che utilizza sistemi biologici, organismi viventi o prodotti derivati, per produrre o modificare prodotti o processi per uso specifico.

Organismo Geneticamente Modificato è un organismo il cui materiale genetico è stato modificato in modo diverso da quanto si verifica in natura con l’accoppiamento e/o la ricombinazione genetica naturale.

Decreto Legislativo 3/3/1993 n°91

Le molecole di DNA ricombinante possono essere:

- molecole di DNA costruite, unendo segmenti di DNA sintetico o naturale a porzioni di DNA presente in organismi viventi;

- molecole di DNA, che derivano dalla proliferazione delle cellule modificate il cui DNA era stato preparato secondo la voce precedente;

- molecole di DNA totalmente sintetico, che codificano per la produzione di peptidi o proteine di interesse farmacologico.

NIH guideline 2001

Le biotecnologie rappresentano un’insieme di tecniche note fin da tempi antichi. L’uomo, per la produzione di alimenti, si è sempre servito di fermentazioni o altri processi di trasformazione microbiologica. Storicamente la tecnica è stata affinata su conoscenze di tipo empirico: il passaggio di nozioni ha da sempre rappresentato una parte del bagaglio culturale che distingue una comunità dall’altra. Solo verso la fine del ’600, con l’invenzione del microscopio e la scoperta dei microrganismi, si sono potuti introdurre miglioramenti guidati da un approccio sistematico, secondo il metodo scientifico. Tra gli esempi più noti dell’applicazione di uno sviluppo in senso analitico delle biotecnologie si può citare la realizzazione del metodo di pastorizzazione (in cui si è partiti dall’isolamento di microrganismi quale agenti causali dei processi di deperimento studiati).

La comprensione di meccanismi biologici sotto una chiave di interpretazione scientifica è stata il presupposto necessario per poter attuare quello che oggi verrebbe definito il processo di scale-up: il passaggio dalla sperimentazione e dalla produzione artigianale alla produzione industriale su larga scala. Su questa evoluzione delle biotecnologie (fino ad ora ancora “tradizionali”) si è venuta ad innestare l’ingegneria genetica. Il concetto di gene e il dogma un gene, una proteina, che si sono venuti a stabilire nella seconda metà del XX secolo, sono stati fortissimi propulsori di questa fusione di conoscenze. Accanto alla comprensione fine dei meccanismi biologici la manipolazione del DNA avrebbe consentito di intervenire in modo quasi chirurgico, tramite l’introduzione/modulazione di un numero definito di geni.

Partendo da questo presupposto le biotecnologie innovative hanno ottenuto forti investimenti in campo terapeutico e diagnostico. In questi settori si è assistito ad un rapido sviluppo e distribuzione di numerosi prodotti. La chiave del successo in campo medico potrebbe risiedere nel fatto che l’ingegneria genetica ha offerto una possibilità di azione completamente nuova e alternativa alla terapia farmacologia classica basata su prodotti di sintesi chimica. Con l’avvento della produzione di proteine ricombinanti si può dire che si è venuto a ridurre il grado di invasività della terapia: vengono impiegate sostanze che sono già parte integrante dei meccanismi fisiologici che si intende ripristinare. Al contrario la terapia farmacologica tradizionale fa leva su prodotti completamente estranei al nostro organismo, esogeni, che sono in grado tuttavia di interagire con il loro target (spesso competendo con le controparti endogene già presenti in noi).

Le biotecnologie innovative hanno influenzato pesantemente anche l’industria alimentare. L’applicazione industriale di processi di lievitazione, fermentazione alcolica, produzione di aceto (solo per citare pochi esempi) è stata possibile solo grazie all’isolamento e all’ingegnerizzazione di ceppi di microrganismi specifici. Per alcuni prodotti quali l’acido citrico (conservante e aromatizzante) o il glutammato (esaltatore di sapidità, tipico delle salse di soia) l’estrazione tradizionale è stata esclusivamente soppiantata dalla messa a punto di biotrasformazioni pianificate e inserite in microrganismi selezionati ad hoc. La vanillina impiegata dall’industria dolciaria proviene in gran parte dalla sintesi chimica; lo sfruttamento delle biotecnologie può permettere l’impiego di un microrganismo adatto in grado di trasformare uno scarto industriale (come la cellulosa) in un prodotto ad alto valore aggiunto (la vanillina appunto), utilizzando metodi decisamente più compatibili per l’ambiente. Questa applicazione delle biotecnologie innovative passa però sottotono nell’opinione pubblica, non suscita lo stesso sensazionalismo che si potrebbe ottenere con la terapia genica o dalla produzione di proteine ricombinanti.

In campo agroalimentare le biotecnologie hanno subito maggiori attenzioni nel momento in cui sono state applicate su organismi superiori come piante e animali. Con questo passaggio si rivela in tutte le sue sfumature la preoccupazione scaturita dal fatto di voler promuovere inevitabilmente il rilascio deliberato di organismi geneticamente modificati nell’ambiente, spingendosi oltre il canonico sistema chiuso del fermentatore.

Inoltre non ci si trova più a lavorare su sistemi unicellulari, relativamente “semplici” (non per questo totalmente prevedibili però). Non è più sufficiente focalizzare l’attenzione delle ricerche sul singolo prodotto genico; diventa necessario, anche se può apparire estremamente complesso, definire e stabilire come venga influenzato il contesto entro cui il prodotto genico viene espresso. Un esempio che possa chiarire questo concetto potrebbe essere ben rappresentato dal caso del pomodoro Flavr Savr™: mediante tecniche di ingegneria genetica, è stato inattivato il gene che codifica le proteine responsabili della marcescenza, e il risultato è un pomodoro con una durata di conservazione praticamente illimitata. […] La modificazione genetica induce semplicemente il rallentamento della decomposizione delle pareti cellulari […] Questo implica che l’alimento è solo apparentemente fresco mentre il suo valore nutritivo può essere prossimo allo zero.

Piante tecnologiche

Per quanto possa apparire riduttivo le biotecnologie innovative, in campo agricolo, hanno consentito di accelerare e ottimizzare il processo di incrocio e selezione di organismi (piante e animali) che meglio soddisfano le esigenze di produzione, sia in termini di qualità che di quantità. La novità più vistosa, ma che suscita maggiore perplessità e apprensione, risiede nel fatto che le biotecnologie innovative hanno consentito di trasferire in un organismo caratteristiche tipiche di specie anche filogeneticamente lontane (estremamente diverse). Solo in seguito a tale approccio è stato introdotto il neologismo transgene: strutturalmente, infatti, non vi è differenza tra gene e transgene. Tenendo ora da parte i vantaggi e i rischi reali che possono derivare dall’applicazione di tecniche di transgenesi occorre a questo punto chiarire il concetto di gene. Nell’immaginario collettivo spesso il gene viene percepito come un’entità indissolubilmente associata all’organismo che la contiene, una parte integrante ed esclusiva del singolo individuo. Per questo motivo l’immagine di una pianta ingegnerizzata con un (trans)gene proveniente da un fungo, o anche da un animale, evoca inevitabilmente un forte senso di “innaturalità”. È mia convinzione che occorra assumere un atteggiamento più oggettivo: un gene è solo riconducibile ad una sequenza di DNA, ha solo facoltà di poter esprimere una (o più, se consideriamo eventuali meccanismi di splicing) proteina, macromolecola biologica composta nella sua essenza dalle stesse identiche unità costitutive di ogni essere vivente, gli amminoacidi. Solo a queste condizioni ritengo sia possibile sostenere una corretta valutazione di come il transgene possa inevitabilmente interagire con l’ambiente in cui si trova ad essere; per corretta intendo priva di condizionamenti.

Quello che spinge l’industria agroalimentare a investire nello sviluppo di OGM è la prospettiva di poter ottenere varietà con caratteristiche migliorate in termini di resistenza e produttività. Esistono quindi piante resistenti all’uso di particolari erbicidi a basso impatto ambientale (es. glifosato), consentendo l’eliminazione mirata di erbe infestanti. Altre piante sono invece resistenti all’attacco di parassiti o resistenti a particolari malattie infettive. Se da una parte tutto ciò consente di abbattere – o comunque limitare – l’impiego di prodotti chimici, dall’altra l’agricoltore si trova costretto a pagare il plusvalore tecnologico; il miglioramento di varietà mediante tecniche di manipolazione genetica ha offerto l’occasione alle aziende distributrici di brevettare le sementi ed imporre un sovrapprezzo che compensi il lavoro di ricerca condotto.

Oltre a questi iniziali obbiettivi , ci si è spinti verso la realizzazioni di piante gm di seconda generazione. Una buona parte dello sviluppo di questa categoria di OGM è orientata verso la produzione di functional food, cibo funzionale. In questo caso si cerca di indirizzare l’applicazione delle conoscenze non più verso un miglioramento della produttività in sé, ma verso l’utilizzatore finale del prodotto (il consumatore). In quest’ottica si è cercato di offrire prodotti che potessero fornire un maggiore apporto nutrizionale. Otterremo quindi frutta e verdura con un maggior contenuto di vitamine e sali, cereali contenenti più fibra, oli con una proporzione maggiore di grassi insaturi.

Gli OGM di seconda generazione aprono la strada ad una nuova tipologia di terapia, che viene definita come nutraceutica. L’intenzione consiste nel veicolare, attraverso la dieta, la somministrazione di farmaci o vaccini. Il potenziale offerto è enorme: è possibile abbattere tutti i costi inerenti a problemi di asetticità, limitando al minimo l’onere da sostenere nell’applicazione di vaccinazioni di massa. Di conseguenza diventerebbe più agevole fornire un’assistenza sanitaria adeguata. Le piante vaccino potrebbero essere coltivate sul posto: in questo modo vengono evitati problemi logistici ed economici legati alla necessità di trasportare i preparati su lunghe distanze. Inoltre, essendo commestibili, sarebbero facilmente somministrabili e avrebbero una migliore compliance (accettabilità da parte del paziente). Accanto ai functional food lo sviluppo di piante gm di seconda generazione comprende altre sfere d’azione che vanno dalla possibilità di coltivare su terreni poveri o inquinati al risanamento stesso di tali terreni (bioremediation), all’ingegnerizzazione di piante per utilizzi non prettamente alimentari (produzione di combustibili e materie plastiche).

Uno sviluppo a più vie

Lo studio, sempre più avanzato, di pattern di regolazione genica ha portato allo sviluppo di metodi alternativi all’inserimento di nuovi geni. Essi si propongono di modulare l’espressione del genoma vegetale senza dover inserire alcunché di esogeno nell’organismo, per quanto possibile. Alla base vi è la nozione secondo cui la forza dominante nell’evoluzione delle piante deriverebbe dai cambiamenti non tanto delle sequenze proteiche ma piuttosto dai meccanismi di regolazione dei geni. La condizione di non dover inserire alcun gene agevolerebbe il problema di accettazione degli OGM da parte del consumatore. È indubbio che questa tecnica rappresenta una opportunità in più all’introduzione di nuove varietà, ma non deve essere considerata l’alternativa che possa sostituire completamente la biotecnologia basata sulla transgenesi. È vero che si potrebbero sviluppare comunque piante dal contenuto nutritivo migliorato, ma non sarebbe in alcun modo possibile mettere a punto cibo terapeutico arricchito in prodotti completamente estranei al mondo vegetale (quali possono essere i vaccini).

Bisogna inoltre considerare che la pressione selettiva esercitata dall’evoluzione dipende essenzialmente dall’habitat in cui l’organismo si trova a vivere naturalmente; per questo motivo l’intervento sulla sola modulazione del patrimonio genetico non sempre risulta sufficiente a garantire un adeguato processo di adattamento ad ambienti ostili o completamente nuovi. Questa tecnica non assicura di poter allestire colture su terreni aridi o poveri di nutrienti, né di condurre progetti di risanamento ambientale. Occorre tenere presente che la modulazione dell’espressione di un gene già presente può incidere sul profilo di espressione genomica tanto quanto può farlo l’inserimento di un gene esogeno. Di conseguenza non può essere escluso a priori che l’omeostasi globale di un organismo non ne venga influenzata.

Nonostante tutto la tecnica proposta porta alla luce una questione fondamentale: non è possibile considerare le biotecnologie innovative solo sulla base della scoperta e isolamento di nuovi geni. È necessario definire anche come tale gene possa venire espresso. In questo senso deve venire considerata con la stessa importanza la scelta dell’opportuno promotore alla base della regolazione genica. L’adozione di promotori inducibili può rendere possibile l’espressione del prodotto genico in precisi periodi temporali e in determinate zone dell’organismo, limitando al massimo il rischio di eventuali interazioni tanto indesiderate quanto imprevedibili.

Alcune piante dispongono di un meccanismo di riproduzione asessuata in cui il corredo cromosomico della cellula uovo non viene segregato ma si mantiene intatto: l’apomissia. La prole consiste in esatti cloni della pianta genitrice. In natura tale strategia è presente in alcune specie che vivono in ambienti estremi: si tratta di un "trucco evolutivo" che consente di preservare combinazioni alleliche particolarmente favorevoli per l'habitat in cui vivono. L’apomissia potrebbe venire sfruttata nella messa a punto di nuove piante gm: lo scopo consiste nel limitare la perdita progressiva del transgene (e quindi pure dei suoi effetti) nel passaggio da una generazione all’altra. L’introduzione di meccanismi apomittici potrebbe rappresentare pure un vantaggio per i coltivatori dei paesi in via di sviluppo in quanto consentirebbero di ricoltivare più volte la stessa pianta senza dover richiedere sementi nuove ogni volta. Le ricerche sull’apomissia sono condotte in gran parte da gruppi di lavoro di ispirazione maggiormente filantropica; in una conferenza, tenutasi a Bellagio nel 1998, i principali centri di ricerca impegnati negli studi sull’apomissia hanno condiviso la responsabilità di utilizzare i risultati delle ricerche per il bene dei coltivatori dei paesi più poveri, mettendo un veto morale sulle possibili opportunità di brevettazione. Attualmente ci si trova però ancora in fase di sperimentazione: non è stata rilasciata ancora nessuna pianta di interesse agroalimentare in grado di riprodursi per apomissia. L’eventualità di poter scegliere l’apomissia alla riproduzione sessuata restringerebbe i problemi di impatto ambientale, in quanto si potrebbe pensare di sopprimere il processo di impollinazione. La scoperta stessa dell’apomissia dovrebbe però mettere in guardia dall’eventuale rischio che un transgene possa integrarsi stabilmente in piante infestanti sessualmente compatibili.

Riso dorato

Il riso è una tra le piante su cui si sta concentrando una buona parte degli sforzi in senso biotecnologico. Il motivo risiede nel fatto che il consumo di riso soddisfa dal 50 all’80% del fabbisogno calorico quotidiano delle popolazioni che abitano l’Asia; si calcola che nel 2010, in quel continente, la richiesta di cereali crescerà del 35% rispetto a quella attuale (secondo l’International Rice Research Institute). Non è difficile immaginare l’importanza di potenziare i raccolti e migliorare le coltivazioni in loco, talvolta pure in regioni non particolarmente adatte alla crescita della pianta.

Il riso ha attirato l’attenzione della ricerca tanto nel pubblico quanto nel privato, incanalando cospicui finanziamenti da parte di numerose nazioni. Nell’ambito privato si è assistito ad un fatto curioso ed insolito: aziende che hanno annunciato di avere già a disposizione una prima “bozza” del genoma del riso hanno rinunciato, per il momento, ad interessi di natura brevettuale rendendo di pubblico dominio la lettura completa del genoma al più presto possibile.

Intanto sono già arrivati i primi risultati dalla manipolazione di alcuni geni, che potrebbero portare a concentrare le energie della pianta nello sviluppo del seme e a ridurre i tempi di coltivazione (aumentando così il numero di cicli di raccolto). Il caso più popolare delle biotecnologie applicate al riso è stato quello del golden rice. Si tratta di una varietà arricchita in beta-carotene (precursore della vitamina A); la pianta è stata ottenuta con la costruzione di un percorso metabolico per la sintesi della sostanza, inserendo un pool di 4 geni esogeni predisposti all’assolvimento de singoli step biosintetici. L’intento sarebbe di introdurre coltivazioni di golden rice in regioni dove si soffre una carenza cronica di vitamina A. Secondo i dati diffusi dalle agenzie internazionali sono circa un milione i bambini che ogni anno muoiono per questa carenza e circa 300000 coloro che diventano ciechi.

Nel 2004, in Louisiana, è stato portato avanti il primo trial in campo aperto sul golden rice, allo scopo di valutarne le reali performance agronomiche. Nel 2005 è stata messa a punto una nuova varietà, in grado di incrementare di 23 volte la produzione di beta-carotene. Al momento nessuna varietà è ancora disponibile per il consumo umano.

Le biotecnologie innovative offrono una grande opportunità di ottenere piante supernutrienti e al tempo stesso di ridurre i costi necessari per ottenerle. La messa a punto di piante arricchite in nutrienti potrebbe rappresentare un incentivo alla lotta per la prevenzione di parecchie malattie. D’altra parte, per poter garantire un alto livello di sicurezza, lo sviluppo di una pianta gm non può essere solo appannaggio dell’ingegneria genetica. È necessario un lavoro concertato di equipe composte da agronomi, nutrizionisti, tossicologi, ecologi, che valutino da più angolature il prodotto di realizzazione tecnica portato avanti da genetisti e biochimici. Tale livello di organizzazione mostra come le biotecnologie innovative non possono essere considerate in funzione di strategie di mercato. Occorre considerare che se i paesi in via di sviluppo potrebbero aver bisogno di una tale tecnologia non sempre hanno un’adeguata capacità di spesa per poter sostenere elevati investimenti. Il rischio è analogo a quanto accade sul piano medico per quanto riguarda i farmaci orfani (farmaci orientati alla cura di malattie rare, un mercato troppo di nicchia per poter ammortizzare le spese sostenute nella fase di ricerca). Esisterebbero tutti i presupposti tecnici per offrire prodotti in grado di aiutare a risolvere gravi problematiche, manca però il coraggio di avviare progetti di fronte alla responsabilità di dover offrire investimenti sicuramente non renumerativi.

L’apomissia, prima citata, rientra tra gli ambiti di studio del CAMBIA, un centro di ricerca australiano fondato nel 1992 (Center for the Application of Molecular Biology to International Agricolture). A prescindere dalla singola tecnica vale la pena menzionare questo centro per la filosofia attorno a cui muove i propri progetti. Il CAMBIA punta ad un modello di biotecnologie no-profit; viene perseguito il concetto di tecnologia open-source ovvero accessibile e fruibile liberamente da tutti. L’obbiettivo consiste nel promuovere e stimolare l’innovazione; venendo a mancare il vincolo di dover pagare royalties le biotecnologie no-profit offrirebbero a chiunque la possibilità di impiegare OGM (limitando il budget alle sole spese di ricerca). Dopo aver constatato la crescente espansione dell’analogo cybernetico Linux nei confronti della monopolizzante Microsoft, vale la pena di considerare seriamente la sfida lanciata dagli open-OGM a compagnie come Monsanto e Novartis.

Cosa controllare?

A differenza di quanto accade in un azienda agroalimentare tradizionale i prodotti biotecnologici distribuiti attualmente devono passare sotto tutta una nuova serie di controlli, che possono essere riassunti sotto i seguenti punti:

A. Identificazione, isolamento e caratterizzazione del gene e di opportuni segnali di espressione.

B. Allestimento di un vettore adeguato per l’inserimento del gene.

C. Selezione delle piante in cui è avvenuta una integrazione corretta.

D. Analisi molecolare delle piante gm (stabilità dell’integrazione del gene esogeno, espressione della proteina eterologa).

E. Prove sperimentali in serra.

F. Prove sperimentali in campo aperto.

G. Analisi allergologica e tossicologica del prodotto.

Se da una parte c’è accordo sul tipo di controlli che è opportuno fare il discorso è ancora aperto sulle modalità con cui debbano essere condotti; a parte alcuni punti manca ancora una precisa e definita distinzione tra quali siano le responsabilità di cui si devono fare carico le istituzioni pubbliche (per la tutela del cittadino) e quali siano i controlli da considerarsi un valore aggiunto, libera iniziativa di ogni azienda produttrice. Le organizzazioni a difesa dei consumatori e ambientaliste chiedono l’istituzione di una normativa analoga all’iter condotto per i farmaci. A mio avviso tale richiesta non avrebbe ragione di essere: gli OGM non hanno finalità terapeutica (a parte quelli che rientrano nel campo della nutraceutica). Occorre piuttosto individuare invece quali siano gli eventuali limiti delle procedure di controllo alimentare esistenti. Non condivido l’approccio americano dell’applicare a priori il principio di sostanziale equivalenza; con a priori intendo che un cibo di origine biotecnologica viene considerato in nulla differente da quelli tradizionale, sulla base del fatto che l’intervento di manipolazione genetica non è orientato all’alterazione di proprietà nutritive e/o organolettiche. D’altra parte non reputo nemmeno opportuno creare un sistema di valutazione del rischio esclusivo per il cibo transgenico. È auspicabile e ragionevole pianificare un protocollo di accertamento della sicurezza, ma tale protocollo dovrebbe essere esteso indistintamente pure a prodotti ottenuti con tecniche di ibridazione tradizionali, o selezionati attraverso procedure di mutagenesi indotta. In entrambi i casi ci si trova davanti, tanto quanto negli OGM, a organismi il cui patrimonio genetico è stato alterato – per non dire stravolto, nel caso degli ibridi – in funzione di ottenere varietà presentanti le caratteristiche volute. Su questa linea di principio, ad esempio, il pompelmo rosa non sarebbe in nulla diverso dal mais-Bt.

La necessità di una normativa ad hoc nasce talvolta dal seguito affermazioni allarmistiche come l’ingegneria genetica permette di creare nuove proteine i cui effetti sono sconosciuti e devono essere attentamente valutati. Effettivamente questa è una reale potenzialità dell’ingegneria genetica. Ma non è sulla creazione ex novo di proteine che si poggia lo sviluppo delle biotecnologie innovative, perlomeno nel settore agroalimentare. Si cerca piuttosto di andare ad individuare in natura delle caratteristiche che sarebbe desiderabile trasferire sull’organismo di interesse, quindi si identificano le proteine coinvolte nella realizzazione di tali caratteristiche (andando a valutare pure i loro singoli effetti). Alla fine si isolano il o i geni da trasferire e si va a definire in che modo debbano essere espressi e correlati reciprocamente. L’imprevedibilità non risiede nell’effetto indotto dalla proteina in sé, ma nell’intero quadro di interazioni che potrebbero venire ad adattarsi all’interno dell’organismo ospite. Tale rischio può venire ridimensionato valutando, proprio sulla base dell’effetto noto della proteina eterologa che si intende inserire, su quali nodi di cammini metabolici la proteina si va ad innestare.

Un problema concreto di sicurezza riguarda invece il fenomeno di mimetizzazione di allergeni. Talvolta il transgene potrebbe codificare per un fattore scatenante allergie, su cui il consumatore eviterebbe di imbattersi se ne fosse a conoscenza; quando l’allergenicità è nota e documentata l’inserimento dei geni responsabili viene escluso durante la fase di progettazione. Nei casi in cui il prodotto genico in sé debba essere considerato quale possibile allergene (coinvolto nella produzione di allergeni o analogo ad allergeni noti) l’etichettatura per gli OGM sarebbe necessaria. Diventa però scorretto limitarsi ad indicare l’organismo da cui proviene il transgene, in quanto non tutti i geni provenienti da esso sono responsabili dell’insorgere di allergie. La legislazione di parecchi paesi già prevede che si analizzi preventivamente:

· la fonte da cui è stato ottenuto il transgene

· la somiglianza del prodotto genico con altre proteine di cui è nota l’allergenicità

· la stabilità della proteina eterologa al processo di digestione e alla cottura

· gli effetti del gene esogeno sulla produzione di allergeni endogeni della pianta ospite

L’efficacia dei controlli è stata dimostrata nel caso di una varietà di soia in cui era stato integrato un gene di albumina proveniente da una noce brasiliana. La soia risultava migliorata dal punto di vista nutrizionale, ma aveva acquisito le proprietà allergeniche dell’albumina. È stato quindi negato il permesso di coltivazione.

Paradossalmente le piante gm possono addirittura essere progettate per ridurre il potenziale allergenico degli alimenti. Con metodologie antisenso e di gene targeting è stato possibile realizzare prodotti di cui si è venuta a perdere l’allergenicità originaria.

Sicurezza senza eccesso di zelo

Il caso Pusztai è stato un caso emblematico nella storia delle biotecnologie innovative; il motivo per cui ho scelta di citarlo risiede nel come è stata gestita la situazione, non tanto nei fatti specifici. Questa vicenda fornisce l’esempio di come sia delicato e importante offrire una corretta informazione scientifica, e di come essa debba essere trasmessa correttamente all’opinione pubblica evitando al tempo stesso di far leva sulla suggestione. Emerge quindi la necessità, da parte della comunità scientifica, di doversi servire di canali mediatici che possano trasmettere una informazione oggettiva e libera da condizionamenti, sia che vada a favore o contro le biotecnologie.

Arpad Pusztai, del Rowet Research Institute di Aberdeen, aveva utilizzato piante di patata gm dotate del gene GNA di bucaneve (codificante una lectina in grado di difendere il bulbo della pianta da parassiti). Nutrendo alcuni ratti con queste patate aveva constatato che una tale dieta altera la mucosa intestinale. A partire da questa osservazione nell’Agosto 1998 il ricercatore è “saltato” direttamente alle conclusioni, esponendo la discussione dei risultati ottenuti direttamente sui media popolari. Lo studio non è stato sottoposto alla revisione critica dei dati e di come siano stati ottenuti; tale revisione è una procedura consolidata nella letteratura scientifica, e viene condotta da una commissione di esperti (referee) che possono valutare oggettivamente la bontà del lavoro svolto. La pubblicazione imprudente del lavoro di Pusztai ha generato forti allarmismi, com’era prevedibile, sostenuti vigorosamente da associazioni schierate apertamente contro l’impiego delle biotecnologie. L’evento indusse il Regno Unito a bloccare le coltivazioni di tutte le piante geneticamente modificate.

Alla fine lo studio venne finalmente passato al vaglio dei referee e venne pubblicato nel 2000 su The Lancet. Lo studio aveva effettivamente dimostrato l’esistenza di alterazioni a carico della mucosa intestinale e del sistema immunitario nei ratti. Tuttavia le obiezioni sollevate sono state parecchie. In primo luogo il regime alimentare stesso a cui erano stati sottoposti i ratti non era caratterizzato da un’alimentazione bilanciata; di conseguenza anche la dieta stessa avrebbe potuto in qualche modo incidere sui risultati. Inoltre è possibile che l’interpretazione dei dati ottenuti sia viziata da condizionamenti, in quanto l’analisi dei campioni non è stata condotta in cieco. Su una questione si hanno però evidenze indiscutibili: sulla patata gm sono state rilevate alterazioni nel contenuto in proteine, amido e zuccheri. La patata transgenica non poteva essere considerata sostanzialmente equivalente a quella usata come controllo; viene quindi ribadito il concetto secondo cui non si può escludere a priori che l’inserimento di un transgene non abbia alcun tipo di conseguenze sulla fisiologia generale dell’organismo ospite. Da queste conclusioni non è però in alcun modo possibile dedurre l’eventuale effetto sul ratto del prodotto del transgene in sé. Nei due anni successivi nessuno studio ha confermato la ricerca di Arpad Pusztai.

Allo stato attuale dell’arte credo che serva procedere nello sviluppo di OGM con decisione, senza però che lo si faccia a scapito della prudenza. Se non sono ancora stati documentati con chiarezza e precisione veri e propri rischi per la salute umana è pur vero che non sarà mai possibile fornire un margine di sicurezza assoluto. Bisogna essere consapevoli che non esiste tecnologia esente da rischi. È necessario però saper giudicare una innovazione in prospettiva del rapporto rischio/beneficio.

Si consideri ora l’utilizzo di geni marker per la resistenza agli antibiotici. Tali geni vengono inseriti nell’organismo assieme al gene esogeno di interesse; con tale strategia diventa possibile isolare gli organismi che hanno effettivamente incorporato il transgene. Questa procedura ha suscitato il timore che geni marker possano trasferirsi ed attivarsi in batteri patogeni della flora intestinale, innescando infezioni resistenti agli antibiotici convenzionali, più difficili da debellare. Si ammetta ora che sia possibile che il DNA si preservi integro nell’ambiente del tratto gastro-intestinale (dopo essere passato attraverso l'ambiente ricco in acido cloridico dello stomaco ed essere stato attaccato da enzimi intestinali specifici per la sua degradazione); a questo punto il gene marker, dotato di uno specifico promotore vegetale per la propria espressione, dovrebbe venire trasferito ed essere attivato in batteri (oltretutto specificamente patogeni). La frequenza per la mutazione naturale alla resistenza ad un antibiotico produce già di per sé un numero cospicuo di batteri resistenti (si pensi solo che la flora intestinale è costituita da circa centomila miliardi di batteri!); il trasferimento di un gene marker non costituirebbe statisticamente un rischio aggiunto. Si tenga conto inoltre che tali geni prenderebbero il sopravvento solo se ci fosse una reale spinta selettiva determinata dalla somministrazione dell’antibiotico specifico. Ad ogni modo l’uso di antibiotici per la selezione di piante è oggi superato da altri approcci (quali geni marker che compensino uno specifico fenomeno di auxotrofia).

L’impatto ambientale

Come ho già detto il principale valore aggiunto associato alle piante gm di prima generazione riguarda la capacità di resistere a erbicidi e all’attacco di parassiti. Questa strategia, ad una prima analisi, sembrerebbe portare allo sviluppo di un agricoltura maggiormente ecocompatibile e a tutela dell’ambiente. L’adozione di organismi gm consente di ridurre notevolmente l’uso di diserbanti e pesticidi; inoltre potrebbe permettere l’applicazione di sostanze a basso impatto ambientale o l’espressione, da parte del transgene, di proteine altamente specifiche e selettive nei confronti dei propri target (ad es. tossina contro la piralide) tali da limitare al massimo gli effetti su altri organismi (su insetti benefici, ma soprattutto sull’uomo). L’evidente risparmio sull’impiego di sostanze chimiche si ripercuote anche su altri aspetti del processo produttivo agricolo, consentendo di ridimensionare le spese inerenti al trattamento e alla lavorazione del prodotto. Ad ogni modo le coltivazioni di piante gm, per quanto ottimizzate, non possono escludere del tutto l’impiego di sostanze chimiche.

Una delle maggiori preoccupazioni riguarda il rischio derivante dal possibile trasferimento di transgeni a varietà selvatiche. Esiste il potenziale pericolo che possano svilupparsi piante infestanti resistenti agli erbicidi, a causa dell’ibridizzazione con polline gm. D’altra parte le piante ibride devono risultare maggiormente competitive nel loro habitat per poter sbilanciare fortemente l’ecosistema in cui si trovano e/o ridurre la biodiversità; una competizione vincente dipende dalla presenza di pressioni selettive che agiscano a favore del transgene. Esiste comunque un ventaglio di alternative, per poter scongiurare il paventato rischio di deriva genetica:

1) Integrare il transgene nel DNA del cloroplasto piuttosto che nel nucleo; la maggior parte delle piante trasmette i cloroplasti per via materna, quindi il polline non sarà gm.
2) Rilascio del permesso di coltivazione solo in zone abbastanza distanti da piante sessualmente compatibili con la pianta gm.
3) Rendere la pianta maschio-sterile, se necessario sviluppare in alternativa meccanismi che promuovano la via di riproduzione asessuata.

Un ulteriore timore è rappresentato dall’espressione costitutiva del transgene. L’esposizione continua alle tossine prodotte dal transgene potrebbe determinare la scomparsa di insetti (non nocivi) diversi da quelli che si intende debellare; paradossalmente si potrebbe favorire anche la selezione di insetti indesiderati resistenti. In questi casi ritorna utile l’impiego di promotori inducibili, in grado di attivare il transgene solo in seguito a infezione da parassiti e solo in definiti stadi di sviluppo o in specifici tessuti della pianta. Un’ulteriore limitazione allo sviluppo di insetti resistenti, consiste nell’alternare coltivazioni gm a coltivazioni non gm della stessa pianta. In questo modo viene preservata una popolazione di insetti non resistenti al transgene, evitando così che quella resistente possa prendere il sopravvento.

Esiste infine il rischio inerente la riduzione della biodiversità, a causa della coltivazione di un numero limitato di varietà ottimizzate. Bisogna tenere presente però che su questo problema non sarebbe corretto attribuire responsabilità all’introduzione di varietà gm, bensì alla strategia in sé di monocoltura intensiva.

Quali opportunità per il Terzo Mondo?

L’impiego di OGM non ha avuto solo ripercussioni ambientali, ma pure di natura socioeconomica. Anche in questo caso si rende necessaria una corretta valutazione del rapporto rischio/beneficio, soprattutto perché rischi e benefici non sono necessariamente a carico degli stessi soggetti. Secondo molti l’impiego di biotecnologie innovative nei paesi in via di sviluppo potrebbe portare ad una ridistribuzione di benefici e ad un miglioramento del reddito degli agricoltori, come già accade nei paesi occidentali. In linea di principio si potrebbero ottenere notevoli passi avanti nella lotta alla denutrizione, sfruttando la potenzialità di poter coltivare a rese elevate in situazioni ambientali critiche. Può apparire ovvio come un tale scenario venga promosso dalle aziende produttrici, che per questioni di interesse economico necessariamente devono fare propaganda. Tale visione però è condivisa pure da organizzazioni indipendenti, quali il Nuffield Council on Bioethics, anche se ridimensionata da opportune premesse e considerazioni del caso.

È ormai noto che la tradizionale agricoltura intensiva è arrivata ad un livello di saturazione tale da non poter più sostenere l’incalzante esigenza dell’attuale aumento demografico su scala mondiale. Tale problema viene ulteriormente amplificato dal fatto che la distribuzione di tale incremento (concentrato nei paesi in via di sviluppo) non coincide assolutamente con le proporzioni secondo cui sono distribuite le risorse agricole. Senza contare che lo sfruttamento intensivo sta progressivamente esaurendo terreni su cui è possibile coltivare.

L’obbiettivo primario di un piano di bioremediation consiste non solo nello sfruttamento di vecchie risorse, ma pure nel ripristino di risorse esaurite; da questi presupposti riparte lo sforzo teso verso la rifertilizzazione di terreni ma anche il recupero e/o l’allontanamento di inquinanti presenti. La biotecnologia deve essere però affiancata da una agricoltura che prevenga l’esaurimento di risorse, attraverso la differenziazione delle colture e la loro ciclazione. Un punto su cui vale la pena di scommettere sulle biotecnologie innovative risiede nella possibilità di aumentare ulteriormente le rese. Le premesse fondamentali per l’attuazione di questa seconda rivoluzione verde ricadono ancora una volta sul piano politico. È necessario un forte impegno del settore pubblico che, non essendo condizionato da una pura logica di profitto, è nelle condizioni ideali per finanziare la ricerca di varietà utili per il Terzo Mondo, capaci cioè di crescere con poca acqua, molto sole e su terreni poveri e inquinati. Al tempo stesso bisogna tener conto della necessità di richiedere l’applicazione di una regolamentazione, nel terzo mondo, a tutela della sicurezza dei nuovi alimenti introdotti.

La FAO è intervenuta più volte in merito all’introduzione delle biotecnologie innovative nel campo agricolo. In uno dei suoi ultimi interventi (Maggio 2004) viene messo in evidenza come la rivoluzione genica rappresenti un enorme opportunità di riscatto per i paesi poveri. Se le biotecnologie innovative offrono grandi promesse ai paesi in via di sviluppo, attualmente solo un numero limitato di agricoltori ne usufruisce. Né il privato né il settore pubblico ha ancora investito in modo significativo nello sviluppo di quelle che possono essere definite le colture orfane; si tratta di piante quali miglio o sorgo, attualmente tra le maggiori fonti di sostentamento alimentare per i paesi poveri.

Gli agricoltori dei paesi in via di sviluppo potranno beneficiare dei prodotti biotecnologici solo nel momento in cui essi stessi potranno avere accesso a termini di profitto. È ancora troppo presto per poter considerare le biotecnologie agroalimentari attuali uno strumento tale da garantire una vera ridistribuzione di benefici su larga scala. Nel 2003 il 99% della superficie coltivata a OGM riguardava solo 4 varietà (mais, soia, colza e cotone), di prima generazione (resistenza a insetti e/o erbicidi), in 6 nazioni (Argentina, Brasile, Canada, Cina, Sud Africa, USA).

Nei pochi paesi in via di sviluppo dove le coltivazioni transgeniche sono state introdotte i piccoli agricoltori hanno già tratto benefici economici, risparmiando sull’applicazione di sostanze chimiche. In Cina le aree coltivate a cotone transgenico (resistente all’attacco di insetti) rappresentano circa il 30% dell’area coltivata a cotone; si è potuto però constatare un aumento nella resa del 20% superiore rispetto alle colture tradizionali e un abbattimento dei costi (derivanti dall’uso di pesticidi) di circa il 70%.

Le biotecnologie possono rilevarsi uno strumento utile, ma non certamente la soluzione completa dell’annosa questione dello sviluppo sostenibile. Sarebbe necessario una migliore distribuzione delle risorse agricole già esistenti; questo passaggio però comporta scelte e decisioni più di natura politica che di natura tecnica.

Vaccini da mangiare

I vaccini hanno quasi compiuto miracoli nella lotta contro le malattie infettive: hanno consegnato il vaiolo alla storia e presto dovrebbero fare altrettanto con la poliomielite. Eppure le campagne internazionali di immunizzazione hanno tragiche lacune nella distribuzione. Si stima che circa il 20% dei bambini sulla Terra siano ancora esclusi dalle principali vaccinazioni (difterite, pertosse, polio, rosolia, tetano, tubercolosi), provocando circa due milioni di decessi ogni anno. La situazione è preoccupante non solo per le regioni prive di un sistema sanitario, ma per il mondo intero, dal momento che i viaggi internazionali e il commercio rendono la Terra un luogo sempre più piccolo. Dopo un appello dell’OMS a sviluppare vaccini poco costosi, somministrabili per via orale e che non richiedessero refrigerazione si è delineata la prospettiva di produrre cibi geneticamente modificati, contenenti il vaccino, da poter essere mangiati quando sia necessario l’inoculo.

I vantaggi sarebbero enormi! Le piante potrebbero essere coltivate localmente e a basso costo, utilizzando tecniche di coltivazione standard tipiche di ogni regione. Siccome molte piante commestibili si possono rigenerare facilmente, si potrebbero in teoria ottenere nuovi raccolti a ripetizione (posto che sia superato l’ostacolo, posto dalla proprietà intellettuale, a riutilizzare le sementi). I vaccini “casalinghi” potrebbero anche evitare problemi logistici ed economici derivanti dal fatto di dover trasportare preparati per lunghe distanze, mantenendoli freschi sia durante il viaggio sia a destinazione. I vaccini commestibili non richiederebbero l’uso di siringhe che, al di là del costo che comportano, possono provocare infezioni se si contaminano accidentalmente.

Non sono molti i produttori di composti farmaceutici ansiosi di finanziare ricerche per prodotti mirati principalmente a mercati diversi rispetto al redditizio Occidente. Governi nazionali stanno sforzandosi di colmare questa lacuna, ma i tentativi di mettere a punto vaccini alimentari rimangono ancora sottofinanziati. I vaccini commestibili, derivanti da piante gm, ovviamente risentono di tutto l’influsso polemico attorno alle biotecnologie agroalimentari. Bisogna però considerare che tali prodotti sono pensati esclusivamente per la tutela della salute umana e che le piantagioni che li producono occuperebbero un’estensione di terreno molto minore rispetto a quella di altre specie commestibili (ammesso che vengano coltivate all’infuori delle serre). Inoltre, in quanto farmaci, sarebbero soggetti ad un esame accurato da parte degli organismi di controllo.

Nel 2004 sono stati avviati in Italia i primi trial su vaccini ottenuti da piante gm (coltivate in serra); si tratta di pomodori e patate contenent


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