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Biotecnologie in agricoltura: Realtà, sicurezza e futuro

Il dibattito sulle applicazioni biotecnologiche in agricoltura è sempre aperto. Per molti, in tutto il mondo, le biotecnologie rappresentano una straordinaria opportunità di sviluppo e, con le loro grandi potenzialità, anche di progresso sociale; altri le considerano una scommessa gravida di incognite.
Tra queste posizioni, opposte, sta la categoria di gran lunga più numerosa. È quella composta dalla grande maggioranza dei cittadini, consumatori, persone comuni, che assistono con difficoltà e disagio a polemiche, non sempre comprensibili, su temi che pure li riguardano direttamente, come la sicurezza alimentare, l’ambiente, la qualità della vita.
Queste difficoltà e questo disagio sono del tutto giustificati. Molto spesso, il modo con il quale si è affrontato il tema delle biotecnologie, ed in particolare quello degli organismi geneticamente modificati, non ha contribuito affatto ad aumentare il livello di informazione e di consapevolezza nel grande pubblico: al contrario, ha alimentato incertezza e confusione.

In altre parole, si può affermare che, all’impegno profuso nel confronto di opinioni sulle agrobiotecnologie, non è corrisposto un analogo impegno nello spiegare che cosa esse realmente siano.
È una lacuna che Assobiotec, con questa sua pubblicazione, vuole contribuire a colmare.
Nelle pagine seguenti vengono illustrate le basi scientifiche, le caratteristiche, le finalità, i campi di applicazione delle biotecnologie agricole: se ne descrivono i vantaggi, quelli già documentati e quelli potenziali, e, allo stesso tempo, si affrontano senza reticenze i dubbi e le obiezioni più diffuse.
Tutti questi argomenti, pur trattati con rigore scientifico, sono proposti con un linguaggio il più possibile semplice e comprensibile, anche a chi non è esperto della materia.
È però necessaria, a questo proposito, un’avvertenza.
Il tema delle biotecnologie - come del resto ogni altro tema scientifico e tecnologico - è di per sé ampio e complesso e non ammette facili semplificazioni: chi se ne lascia tentare, qualunque sia il suo scopo, non offre un buon servizio alla comunicazione né alla collettività.
È invece doveroso informare con completezza, fornendo all’opinione pubblica tutti gli elementi utili a una valutazione obiettiva. Offrendo anche, se necessario, alcuni strumenti interpretativi ‘di base’, come fa opportunamente questa pubblicazione: che cos’è un gene, per esempio, oppure in che cosa consista effettivamente la ‘diversità’ genetica tra le specie.
La scarsa familiarità con questo tipo di informazioni ha probabilmente contribuito a condizionare non poco, nel passato recente, la comprensione e la stessa accettazione delle biotecnologie. Con conseguenze negative, in particolare in Italia, sulle prospettive di sviluppo di un settore scientifico e tecnologico estremamente promettente e in grado di offrire consistenti benefici alla società, all’alimentazione e alla salute, all’economia, all’ambiente.
Le agrobiotecnologie rappresentano una risorsa di eccezionale importanza per migliorare la qualità e il valore nutrizionale degli alimenti; sono l’opzione più seria per garantire all’agricoltura un futuro di sostenibilità ambientale; possono svolgere un ruolo di grande rilievo nella tutela della biodiversità, salvaguardando le specie e le varietà a rischio di estinzione; permettono di incrementare la produttività delle colture, e quindi possono assicurare più cibo a costi contenuti. Offrono, inoltre, ampie garanzie di sicurezza, sottoposte come sono alla rigida disciplina della ricerca scientifica, oltre che a norme e regolamentazioni che non hanno eguali in campo agricolo e alimentare.
Questa è la realtà delle biotech agricole e ad essa fa riferimento questa pubblicazione, in modo documentato e obiettivo. L’augurio è che sia accolta con attenzione, e che possa rivelarsi un utile strumento di informazione e divulgazione.

Sergio Dompé, Presidente di Assobiotec
Associazione Nazionale per lo sviluppo delle biotecnologie



Le domande più frequenti

Quali sono i benefici per i consumatori dell’uso di vegetali geneticamente modificati?


Le piante geneticamente modificate sono innanzitutto un’innovazione tecnologica, quindi il beneficio di questi nuovi prodotti per il consumatore talvolta non viene immediatamente percepito. La maggior parte delle modifiche genetiche apportate ad alcune piante permette un aumento della produttività, grazie a una migliore adattabilità a condizioni ambientali e climatiche sfavorevoli, alla resistenza a malattie che altrimenti ridurrebbero la resa delle colture, oppure a una maggiore capacità di combattere le piante infestanti. Questi miglioramenti produttivi vanno a vantaggio degli agricoltori, ma hanno effetti positivi anche sul consumatore, al quale viene offerto un prodotto più sano (perché senza malattie e con minori residui di sostanze chimiche) e verosimilmente meno costoso.
Ma le modifiche genetiche possono offrire ai consumatori anche benefici diretti, per esempio quando migliorano il profilo nutrizionale e anche le caratteristiche nutritive del raccolto, come accade a specie in cui si è modificato il contenuto di vitamine, proteine e grassi.


Da dove provengono i geni inseriti negli OGM?

Dal momento che il codice genetico è un linguaggio universale, in ingegneria genetica si possono in teoria usare tutti i geni presenti in natura. In realtà, non tutti gli OGM contengono geni provenienti da un altro organismo: anzi, sempre più spesso le modifiche genetiche si ottengono usando geni che provengono dalla specie a cui appartengono. Il gene viene estratto, modificato in modo da migliorarne o ridurne la funzione, e poi reinserito. Questa specie di ‘terapia genica’ genera quindi un OGM che non contiene nessun gene ‘straniero’.
A proposito di questi ultimi, è necessario qualche chiarimento. Quando si introduce in una pianta un pezzo di DNA (cioè un gene) preso, ad esempio, da un pesce, non ha senso dire che si inserisce un pezzo di animale in un vegetale: una volta portato fuori dall’organismo di origine, questo frammento di DNA è solo una sostanza in grado di esprimere o meno una proteina, proteina che può essere presente in molti altri organismi oltre il pesce.


Le piante che si autoproteggono dai parassiti possono creare nuovi insetti resistenti agli insetticidi?

Il problema della resistenza indotta, cioè della possibilità che microrganismi e animali nocivi divengano capaci di resistere ai prodotti impiegati per distruggerli, è vecchio quasi quanto l’agricoltura e non riguarda quindi solo le varietà geneticamente modificate. Fa parte dell’evoluzione naturale che queste resistenze si sviluppino e, tuttavia, la comparsa di nuovi insetti o di microrganismi più resistenti non significa che questi siano più pericolosi dei precedenti, se non per la necessità di utilizzare nuovi metodi di difesa delle colture.
Lo sviluppo di forme di resistenza è legato alla ‘pressione selettiva’ alla quale è sottoposto l’agente patogeno, cioè il livello di competizione ambientale cui viene sottoposto nel tentativo di salvare le colture. Si teme, per esempio, che la diffusione del mais Bt possa indurre fenomeni di resistenza nella piralide. Questo insetto però non si nutre esclusivamente di mais, ma anche di specie molto diverse come il pomodoro, il melo, il peperone, quindi la ‘pressione selettiva’ non è molto elevata. Per limitarla ulteriormente si adotta una particolare strategia: si coltivano varietà tradizionali di mais, che vengono normalmente attaccate dal parassita, accanto a quelle geneticamente modificate resistenti, per creare delle “zone di rifugio” in cui si possano sviluppare delle popolazioni di insetti che trasmettano alla loro discendenza l’incapacità di resistere alla tossina Bt. La resistenza alla tossina è un carattere geneticamente recessivo. Pertanto, poiché gli insetti resistenti provenienti dai campi di mais geneticamente modificato (mais Bt) si accoppiano con gli individui di questa popolazione che invece non è resistente, i discendenti saranno ancora sensibili alla tossina.


Le piante con proprietà ‘insetticide’ possono colpire anche gli insetti utili?


È stato avanzato il sospetto che le piante di mais Bt possano essere tossiche non solo per gli insetti parassiti, ma anche per quelli benefici (i predatori degli insetti patogeni), per gli insetti impollinatori (come le api) o per le farfalle. Sono in corso numerosi studi, in laboratorio e in campo, per valutare la reale consistenza di questi rischi e, dai risultati ottenuti fino ad ora (anche in sperimentazioni su larga scala), non ci sono ragioni per supporre che gli eventuali effetti negativi siano maggiori rispetto a quelli provocati dall’insetticida Bt, comunemente irrorato anche nell’agricoltura biologica. Quello che è certo è che la produzione della tossina da parte della pianta di mais geneticamente modificata ne permette un’azione localizzata, in quantità ridotte rispetto a quelle irrorate con i trattamenti esterni: in questo modo, l’effetto tossico è limitato a quegli insetti dannosi che si nutrono dei tessuti della pianta, e non si estende agli insetti innocui, che sarebbero invece inevitabilmente colpiti dallo spargimento della tossina mediante irrorazione.


Le piante resistenti agli erbicidi possono trasferire questa caratteristica ad altri vegetali?

Perché questo trasferimento di geni avvenga è necessario che, nel luogo in cui è presente la coltura resistente agli erbicidi, siano presenti piante appartenenti alla stessa specie o a specie molto simili. In questo caso, il polline della pianta transgenica potrebbe trasmettere a queste ultime il gene che le rende tolleranti all’erbicida. Ma se anche esistono specie selvatiche geneticamente vicine alla coltura modificata geneticamente, gli eventuali ibridi che si formerebbero con l’impollinazione incrociata sarebbero poco numerosi e per lo più sterili. La riproduzione di specie simili, come nel caso dell’incrocio tra un cavallo e un asino, dà spesso luogo a organismi incapaci di riprodursi ulteriormente, come avviene appunto nel caso del mulo. Inoltre, l’acquisizione della tolleranza da parte, per esempio, di piante infestanti, non darebbe loro alcun vantaggio, tranne che in presenza dell’erbicida: in questo caso, però, potrebbe causare danni economici alla coltivazione, ma non costituirebbe un pericolo per l’ambiente.


La coltivazione di OGM richiede maggiori quantità di erbicidi?

No, le può invece ridurre. Per dimostrarlo si può ricorre a un esempio. Attualmente gli agricoltori inglesi utilizzano fino a otto diversi erbicidi per combattere le piante infestanti nella coltivazione della barbabietola da zucchero, una delle più difficili e sensibili a questo tipo di problema, con l’uso dei prodotti chimici prima e dopo la germinazione e con modalità di impiego differenti. L’utilizzo delle piante tolleranti al glifosate o al glufosinate riduce l’impiego di erbicidi, in quanto non sono più necessari otto differenti prodotti ma un unico erbicida a largo spettro d’azione e ad elevata ‘compatibilità’ ambientale. La possibilità di effettuare il trattamento con il glifosate o con il glufosinate anche dopo la germinazione della pianta permette inoltre di programmare l’impiego dell’erbicida in modo più razionale, in base alle necessità e all’andamento climatico della stagione, riducendo le quantità totali impiegate.


Una pianta geneticamente modificata può diffondersi nell’ambiente in modo incontrollato?

Non è semplice predire gli effetti a lungo termine dell’introduzione di nuovi organismi vegetali, che siano geneticamente modificati o no. L’agricoltura utilizza abbondantemente specie che non sono presenti naturalmente nel luogo di coltivazione. Per secoli sono state introdotte in Europa specie non indigene, in modo intenzionale o casuale. Basti pensare a mais, soia, patata e pomodoro, che oggi rappresentano gran parte dell’agricoltura europea e che sono state introdotte nel Vecchio Continente da zone molto lontane, come l’America. Se parecchie di queste specie sono innocue o addirittura danno benefici, altre sono definite ‘invasive’, per la capacità di invadere l’ambiente e di degradarlo.
Questo pericolo è inesistente per le specie molto addomesticate, come il mais o la soia, che non sono in grado di sopravvivere senza l’intervento umano, mentre se ne deve tenere conto nel caso di specie più “selvatiche” come può essere la colza. In ogni caso, non c’è nessun motivo per ritenere le piante geneticamente modificate più invasive delle specie naturali coltivate in habitat non nativi.


Che cos’è la contaminazione genetica?

È la possibilità che il polline prodotto da una pianta geneticamente modificata fecondi i fiori di piante vicine.
Questa probabilità cambia a seconda delle specie coltivate, delle specie affini con cui condividono lo stesso habitat e delle caratteristiche di fertilità o di sterilità degli ibridi spontanei che si formano con esse.
Occorre inoltre considerare anche il tipo di riproduzione delle piante, in quanto esistono numerose specie che si autofecondano, per le quali la probabilità di contaminazione genetica è bassissima, e specie che invece si riproducono per fecondazione incrociata, disperdendo il polline nell’ambiente attraverso il vento o usando come “corrieri” gli insetti. Per queste ultime, i fenomeni di impollinazione incrociata sono possibili.
Per limitare la probabilità di contaminazione genetica da parte delle varietà geneticamente modificate, si è sviluppata la tecnologia nota come “terminator” o “a semi suicidi”. In queste piante i semi prodotti dalla fecondazione con il polline transgenico si sviluppano normalmente, ma sono incapaci di germinare e produrre nuove piante, evitando così che possa avvenire la dispersione del gene estraneo introdotto (transgene). Questa tecnologia, richiesta per evitare rischi potenziali di contaminazione genetica, è stata oggetto di forti critiche: si è infatti obiettato che le piante “terminator” possono rappresentare un sistema mediante il quale le industrie sementiere costringono gli agricoltori all’acquisto di nuove sementi ogni anno. Questo tipo di critica, però, non tiene conto del fatto che già molte colture (come mais, girasole e pomodoro) derivano da sementi ibride ‘tradizionali’ che ogni anno devono essere riacquistate per non perdere le caratteristiche di produttività e uniformità.


Gli OGM ridurranno o elimineranno la biodiversità?

Nel corso di oltre tre miliardi di anni, l’evoluzione naturale ha generato l’enorme patrimonio di diversità biologica che popola il nostro pianeta, la ‘biodiversità’ appunto. Questo potenziale genetico è essenziale per assicurare l’adattamento delle specie al progressivo mutamento delle condizioni di vita: la perdita della biodiversità rappresenta quindi una minaccia per la sopravvivenza delle specie viventi sulla Terra.
Lo sviluppo dell’agricoltura, con la progressiva selezione delle sole piante di maggior interesse produttivo, ha effettivamente portato a una riduzione della variabilità genetica e solo di recente si è cominciato a porre la dovuta attenzione alla conservazione della biodiversità esistente, che una volta perduta non è più possibile ricreare.
La possibilità di creare piante geneticamente modificate dipende strettamente dal ‘serbatoio di geni’ a disposizione, rappresentato dalla diversità genetica. Pertanto, le biotecnologie hanno bisogno della preservazione della biodiversità, che viene così salvaguardata, in quanto fonte di geni, invece di essere potenzialmente eliminata perché “obsoleta” o non più commercialmente conveniente. Esistono nel mondo centri specializzati per la conservazione del materiale genetico vegetale (detto germoplasma), come vere e proprie ‘banche delle sementi e dei geni’, che lavorano per evitare la scomparsa di una moltitudine di varietà vegetali non più coltivate perché non comprese nei costosi programmi di miglioramento genetico che hanno portato alla realizzazione delle colture attuali.


Gli alimenti derivati da OGM possono avere effetti negativi sulla salute?

Il timore che gli OGM possano essere dannosi per la salute è in qualche modo collegato a fatti che nulla hanno a che vedere con le modifiche genetiche: per esempio la vicenda dei “polli alla diossina”, la malattia della “mucca pazza” (Bse) o l’epidemia di afta epizootica. Nonostante gli OGM non ne siano in alcun modo coinvolti, questi incidenti hanno provocato un clima generale di insicurezza alimentare. Al punto che anche gli alimenti derivati da organismi modificati geneticamente sono da alcuni considerati pericolosi. Ma non ci sono motivi reali per considerarli tali. Il Dipartimento economico e sociale della FAO, l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura dell’ONU, ha confermato che tutte le sperimentazioni effettuate non hanno rilevato alcun grado di tossicità degli OGM vegetali in commercio. Negli Stati Uniti, dove questi sono entrati nella catena alimentare diversi anni fa, non si è riscontrato nessun aumento dell’incidenza di malattie tra i consumatori, rispetto ai valori riscontrati in Europa, dove invece le piante geneticamente modificate non sono ancora coltivate. Tutti gli alimenti che fanno parte della nostra dieta quotidiana sono il risultato di secoli di selezione, incroci e ibridazioni compiuti su animali e piante e le biotecnologie non fanno altro che accelerare e rendere più efficiente tale processo.


Consumando vegetali con un gene ‘estraneo’, questo può trasferirsi nell’organismo umano?

La complessità del nostro organismo è tale per cui nulla di estraneo può integrarsi nelle nostre cellule: da sempre l’uomo si alimenta con vegetali e animali senza tuttavia averne assunto alcuna caratteristica, cioè senza averne assimilato i geni. Il DNA e le proteine ‘estranee’ si trovano in tutto ciò che mangiamo, in ogni cellula che compone la frutta, la carne e la verdura, e ogni giorno ne mangiamo notevoli quantità senza che ciò ci ‘modifichi’ minimamente. Ad esempio, nessuno è mai diventato verde dopo aver consumato un piatto di insalata.


Gli OGM possono trasferire all’uomo la resistenza agli antibiotici, indebolendo le sue difese?

Nonostante i vegetali geneticamente modificati di nuova concezione ne siano spesso privi, le sementi geneticamente modificate di prima generazione contengono anche dei geni ‘marcatori’ che permettono ai ricercatori di distinguere le piante trasformate da quelle che non contengono le caratteristiche volute. Il pericolo ipotizzato consiste nel fatto che il gene marcatore possa entrare in uno dei batteri che costituiscono la nostra flora intestinale, superi le difese del microrganismo e si inserisca nel suo genoma. Ebbene tutti questi eventi hanno una probabilità bassissima di avvenire contemporaneamente. È infinitamente più alta la probabilità che l’organismo possa assumere geni antibiotico-resistenti grazie al milione e più di batteri che ingeriamo ogni giorno, con la respirazione o l’alimentazione. Inoltre, il gene estraneo eventualmente trasferito nel batterio intestinale non potrebbe funzionare, a causa della mancanza di un promotore adatto, cioè di quell’interruttore molecolare, nelle cellule, ‘accende’ o ‘spegne’ il funzionamento del gene, e che è diverso tra piante e microrganismi.


Le piante modificate geneticamente possono provocare allergie?

Le allergie a proteine alimentari colpiscono una bassa percentuale della popolazione e gli individui allergici manifestano reazioni a poche proteine, dette allergeni, che appartengono a una ristretta classe di cibi: noci, uova, soia, latte, arachidi, pesce, crostacei, frumento. Alcuni anni fa gli scienziati pensarono di risolvere il problema della mancanza di amminoacidi solforati nella soia modificandola per farle produrre una proteina ricca in zolfo: la proteina 2S, purificata dalla noce brasiliana. I test preliminari mostrarono però che la proteina 2S era proprio uno degli allergeni della noce brasiliana, quindi il progetto fu interrotto sin dalle sue fasi iniziali.
Oggi la FAO e l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) hanno reso ulteriormente sicuri i processi di sviluppo e sperimentazione di nuovi OGM, al fine di escludere ogni possibile allergenicità degli alimenti derivati. Proprio perché sono sottoposte obbligatoriamente a questi controlli, le piante geneticamente modificate sono di fatto più sicure di diversi frutti e verdure esotiche, che sempre più spesso vengono importate dai Paesi tropicali e vendute senza aver prima verificato se possano causare allergie in una popolazione che prima d’ora non se ne era cibata. Se il kiwi, per esempio, prima di essere introdotto in Europa fosse stato sottoposto a tali test, non sarebbe stato commercializzato, proprio a causa della sua elevata allergenicità.


Gli OGM hanno un gusto diverso dalle varietà “tradizionali”?

I cambiamenti che vengono apportati alle piante con le biotecnologie riguardano l’introduzione di caratteristiche vantaggiose per l’impiego agricolo. Proprio perché si tratta di vegetali utilizzati nella catena alimentare, il gusto dei cibi prodotti con ingredienti modificati geneticamente non viene alterato. Per esempio il passato di pomodoro geneticamente modificato venduto in Gran Bretagna vanta un elevato indice di gradimento da parte dei consumatori.


Le piante geneticamente modificate sono ‘innaturali’?

Sono ‘naturali’ esattamente come le altre. Oppure ‘innaturali’ come le altre, se si preferisce. Infatti tutte o quasi le varietà oggi coltivate (per uso alimentare e non) sono state profondamente modificate nel corso di lunghi e laboriosi programmi di miglioramento genetico. La soia coltivata, per esempio, è un prodotto del miglioramento genetico, e non esiste allo stato ’selvatico’: non è infatti possibile ritrovarla in natura, così come non è possibile trovare in natura la fragola coltivata, altro prodotto dell’uomo. Il mais, a sua volta, deriva da un antenato che produceva solo pochi granelli, come anche il frumento. L’intervento dell’uomo ha profondamente alterato sia l’aspetto esteriore di queste piante, sia il loro patrimonio genetico. Le modificazione genetiche sono dunque sempre esistite, sia pure con tecniche convenzionali, rimescolando cioè in modo casuale il DNA delle piante. Queste tecniche possono dare ottimi risultati, ma anche produrre conseguenze imprevedibili. In passato, ad esempio, si sono fuse insieme una cellula di patata e una di pomodoro, allo scopo di ottenere una pianta di pomodoro che producesse anche tuberi di patata: il risultato, denominato topato, possedeva il fusto e le foglie della patata e le radici del pomodoro, cioè l’opposto di ciò che si voleva.
A differenza di queste tecniche, le biotecnologie sono precise, cioè modificano il DNA solo nei caratteri desiderati, evitando così di stravolgere il corredo genetico delle piante.


Si può riconoscere una pianta geneticamente modificata?

Una pianta geneticamente modificata è del tutto simile a una ‘naturale’. Le tecniche di biologia molecolare oggi disponibili permettono di identificare un particolare gene ‘straniero’ inserito in un organismo (cioè un transgene), quando si conosce almeno una porzione del suo DNA. Se non lo si conosce non è possibile identificarlo in alcun modo. Inoltre, le tecniche di controllo possono essere utilizzate abbastanza facilmente se si opera su materiale vegetale ‘fresco’, ad esempio una foglia della pianta, mentre divengono quasi inutili, cioè perdono la capacità di riconoscere la presenza del transgene, se si utilizzano materiali lavorati in cui il DNA è stato distrutto o rimosso. Nel caso si cerchi ad esempio un transgene di cui si conosce la struttura, come nel caso delle varietà oggi coltivate di mais geneticamente modificate, è abbastanza facile trovarlo se lo si cerca nei chicchi, mentre è difficile se lo si cerca nell’olio estratto dai semi stessi.
Uno dei metodi più rapidi e semplici per verificare se un organismo sia geneticamente modificato è la PCR (reazione a catena della polimerasi): si basa sulla capacità di un enzima (tipo particolare di proteina) di copiare ‘a catena’ il DNA, raddoppiandone cioè ogni volta le copie. Il difetto di questa tecnica però è che funziona solo se si conoscono le sequenze iniziali e finali delle lettere che compongono il pezzo di DNA che si intende copiare.

L’elenco degli organismi geneticamente modificati approvati nel mondo è disponibile sul sito:
http://www.agbios.com



Le biotecnologie vegetali


Le piante geneticamente modificate. A che cosa servono?

La modificazione genetica di piante coltivate può avere diversi scopi. Serve a rendere queste piante resistenti a un parassita o a una malattia; oppure ad aiutarle a sopportare condizioni climatiche difficili, come la siccità o il gelo; o ancora a permettere la loro coltivazione in terreni poco adatti, come quelli troppo ricchi di sali. Una pianta può essere inoltre modificata per migliorare i suoi contenuti nutritivi o per sviluppare caratteristiche utili alla sua trasformazione alimentare: per esempio per aumentare il contenuto di proteine nel frumento per la panificazione, o per ridurre i grassi nell’olio da colza.
Infine, l’introduzione di una informazione genetica ‘nuova’ in una pianta può consentire il suo utilizzo per produrre medicine, come vaccini od ormoni, oppure materiali chimici di uso industriale (per esempio, plastiche biodegradabili).
Quando si modifica geneticamente una pianta, dunque, si vogliono soddisfare le stesse esigenze a cui, da secoli, si tenta di provvedere con i metodi di miglioramento ‘convenzionali’. Gli obiettivi sono gli stessi, cambia solo la tecnica impiegata.


Le tecniche di miglioramento convenzionali

Tradizionalmente, una varietà vegetale viene migliorata attraverso l’incrocio con altre varietà, non di rado selvatiche, che presentano caratteristiche interessanti. Spesso le piante ottenute da questo incrocio vengono nuovamente incrociate con il ‘genitore’, già coltivato per le sue proprietà agronomiche positive (produttività, qualità, resistenza, ecc.) e questo processo viene ripetuto per più generazioni, finché non si ottiene una varietà con le proprietà desiderate.
Per produrre delle varietà migliorate con queste tecniche, è necessario disporre di un’ampia riserva di forme vegetali (coltivate e selvatiche), per poter individuare, tra le diverse specie e varietà, quella capace di trasferire nell’incrocio la caratteristica voluta. I reincroci sono necessari per garantire che la varietà finale contenga questa ma al tempo stesso non perda tutte le altre qualità del tipo “pregiato” già coltivato. Alla fine di questa procedura, la pianta conterrà il gene o i geni responsabili della specifica caratteristica voluta. Assieme a questi, però, avrà ereditato numerosi altri geni, estranei e sconosciuti.


Le piante transgeniche

Esistono vari metodi per ottenere piante geneticamente modificate. Uno dei più utilizzati fa ricorso al batterio Agrobacterium tumefaciens, un ‘ingegnere genetico’ naturale. Si tratta di un microrganismo, innocuo per gli animali e per l’uomo, che è presente comunemente nel terreno e che per sopravvivere sfrutta le piante nelle quali si insedia, modificandone il genoma: inserisce cioè alcuni geni del proprio DNA nel DNA della pianta, che la costringono a produrre ormoni vegetali dei quali si nutre. I biologi molecolari hanno imparato a usare l’Agrobacterium tumefaciens come mezzo di trasporto: nel frammento di DNA che il batterio trasferisce alla pianta, vengono cioè sostituiti alcuni geni, che verranno così inseriti nella pianta stessa.
Non sempre l’agrobatterio riesce a portare a termine il suo lavoro in maniera soddisfacente. È quindi necessario identificare le piante che contengono effettivamente il gene che si è voluto introdurre. A questo scopo si inseriscono nel DNA dell’agrobatterio anche alcuni geni “marcatori”, che permettono di riconoscere i tessuti o gli individui trasformati: tra i più comuni ci sono quelli che consentono alla pianta di resistere agli antibiotici. Nei primi OGM sviluppati, questi geni rimanevano indefinitamente nel DNA della pianta: in seguito, i continui progressi della scienza hanno permesso di eliminare il gene marcatore al termine della selezione.
Le cellule selezionate vengono riprodotte con metodi di coltura simili a quelli che permettono di moltiplicare una pianta senza ricorrere al seme (riproduzione vegetativa). Una volta rigenerate, le piante geneticamente modificate si comportano in tutto e per tutto come le piante non modificate, tranne che per la caratteristica nuova che è stata in esse inserita con l’ingegneria genetica.
Un altro metodo di trasformazione consiste nell'introdurre i geni direttamente nel nucleo della cellula vegetale da modificare. In questo caso si ‘sparano’, all’interno delle cellule, micro-proiettili metallici ricoperti di DNA: questi penetrano nella cellula e inseriscono il nuovo DNA nel genoma, come se alcune nuove pagine venissero “incollate” all’enciclopedia che contiene le informazioni vitali della pianta.

Le piante geneticamente modificate si ottengono generalmente utilizzando un “ingegnere genetico” naturale: l’Agrobacterium tumefaciens



Le piante geneticamente modificate, l’alimentazione e la salute


Piante per produrre vaccini

Recentemente è stata dimostrata l’utilità delle piante geneticamente modificate nel prevenire le malattie di alcuni animali. Un esempio viene dalla realizzazione di patate geneticamente modificate capaci di immunizzare il coniglio contro il virus RHDV, che causa una febbre emorragica con gravi danno al fegato e al sistema sanguigno, portando l’animale alla morte.
Ricerche come queste aprono le porte allo sviluppo di tutta una serie di OGM in grado di produrre un’ampia gamma di proteine immunizzanti, con le quali “vaccinare” molte specie animali di interesse zootecnico.


Il miglioramento delle caratteristiche organolettiche

La ricerca biotecnologica applicata all’alimentazione sta lavorando da diversi anni su due direttrici principali: il miglioramento della qualità degli alimenti e il loro arricchimento dal punto di vista nutrizionale. Alcuni OGM caratterizzati da una migliore qualità hanno già ottenuto l'autorizzazione alla commercializzazione. Il primo è stato il pomodoro: bloccando la produzione dell'enzima che causa il rammollimento dopo la maturazione (poligalatturonasi), è conservabile più a lungo ed è meno esposto agli attacchi di muffe e batteri. Anziché raccoglierlo ancora acerbo, il frutto può essere lasciato maturare più a lungo sulla pianta, garantendo migliori qualità alimentari, senza trascurare il fatto che un frutto più consistente, dalla polpa migliorata, presenta minori problemi di trasporto.
Nei Paesi in via di sviluppo, dove spesso le vie di comunicazione sono scarse e difficoltose, la possibilità di mantenere intatte le derrate agricole durante il lungo trasporto tra i campi e le città avrà un’importanza crescente, soprattutto per il fenomeno del continuo aumento della popolazione urbana.

Il pomodoro conservabile più a lungo è un tipico esempio di OGM che non contiene un gene ‘straniero’: la modifica genetica è infatti ottenuta prelevando un gene dalla stessa pianta e reinserendolo poi in orientamento opposto (girato al contrario).


OGM per la salute umana

Uno degli obiettivi più rilevanti delle biotecnologie è quello di aiutare a risolvere i problemi di alimentazione: in questa direzione la ricerca ha prodotto importanti risultati, come una varietà di pomodoro con una più forte presenza di licopene, sostanza antiossidante che protegge i vasi sanguigni e previene alcune forme di tumore.
È stata anche brevettata e resa disponibile gratuitamente ai Paesi in via di sviluppo una varietà di riso geneticamente modificato contenente beta-carotene. I carotenoidi sono importanti per la salute umana: in quanto antiossidanti e distruttori di radicali liberi, possono contribuire a prevenire il cancro, le malattie cardiache e l'invecchiamento precoce. Il beta-carotene è un precursore della vitamina A, indispensabile per il funzionamento normale della vista, per la crescita, per lo sviluppo delle ossa e per l'immunità contro le malattie. La carenza di vitamina A rappresenta un grave problema sanitario in ben 118 paesi, in quanto causa primaria di 500.000 casi di cecità irreversibile e di quasi 2 milioni di morti ogni anno nei paesi la cui dieta si basa sul riso. Si stima che alleviando la carenza di vitamina A tra i bambini in età prescolare dei Paesi in via di sviluppo, sia possibile ridurne la mortalità fino al 23 per cento.
È inoltre allo studio un riso geneticamente migliorato ricco di ferro e dotato di una proteina che ne favorisce l’assorbimento nell’intestino. Di questo riso potrebbero beneficiare circa quattro miliardi di persone la cui dieta è carente di ferro.



Gli OGM nell’ambiente


OGM e ‘agricoltura sostenibile’

Cosa si intende per agricoltura sostenibile? In sintesi, è un’agricoltura che, pur rimanendo intensiva (cioè in grado di produrre grandi quantità di alimenti su superfici limitate) riduce l’impatto ambientale provocato dalle sostanze chimiche utilizzate contro le erbe infestanti e come fertilizzanti.
Le piante geneticamente modificate rappresentano un mezzo molto importante per raggiungere questo obiettivo: l’ingegneria genetica infatti permette di adattare le piante all’ambiente nel quale sono coltivate. Esattamente il contrario di quanto è costretta a fare l’agricoltura convenzionale che, attraverso sostanze chimiche, cerca di adattare l’ambiente alla pianta.
Già oggi, molte piante geneticamente modificate limitano l’impiego della chimica nelle coltivazioni. Quelle che si autoproteggono da insetti, funghi o batteri, per esempio, riducono o addirittura eliminano l’uso dei fitofarmaci necessari per controllare questi parassiti; quelle modificate per resistere agli erbicidi a largo spettro permettono un utilizzo più intelligente dei composti chimici disponibili, e sono quindi utili nel limitare i danni causati dall’accumulo nell’ambiente dei tradizionali erbicidi, usati per debellare le erbe infestanti.

Le piante geneticamente modificate possono rappresentare un passo concreto verso la riduzione dell’impatto ambientale dell’agricoltura, senza che ciò comporti una perdita di produttività.


Il controllo delle erbe infestanti

La crescita di piante infestanti, che sottraggono alle colture acqua, luce e nutrimento, causa notevoli danni alle coltivazioni: si stima che ogni anno nel mondo le perdite siano pari al 10-15% di tutti i raccolti. Per affrontare questo problema si ricorre normalmente alla distribuzione sui campi di sostanze chimiche ad azione erbicida: senza ricorso a questi composti, le perdite sarebbero molto più elevate.
Il massiccio impiego di erbicidi (o diserbanti) nell’agricoltura moderna, però, comporta rischi di inquinamento, soprattutto per quanto riguarda le falde acquifere. Inoltre, gli erbicidi utilizzati per una certa coltura spesso rimangono per un periodo più o meno lungo nel terreno, impedendo una ottimale rotazione delle coltivazioni. Esistono erbicidi a basso impatto ambientale, che però non sono selettivi, il cui impiego è cioè limitato dal fatto che uccidono anche le colture. La possibilità di coltivare piante ‘tolleranti’ a questi erbicidi ne permette l’utilizzo non solo in alternativa a diserbanti molto più inquinanti, ma anche in dosi più limitate, grazie alla possibilità di usarli in maniera più razionale.
Attraverso l’ingegneria genetica è possibile ottimizzare queste potenzialità, conferendo la tolleranza alle varietà che non la possiedono.
Esempi concreti sono la soia tollerante al glufosinate e la soia tollerante al glifosate, tra le prime piante geneticamente modificate a essere immesse sul mercato, coltivate a partire dal 1996 e oggi molto diffuse, tanto da risultare le colture geneticamente modificate più coltivate in tutto il mondo. Il glufosinate ed il glifosate sono erbicidi non selettivi che permettono un intervento efficace con dosi ridotte e sono considerati tra i migliori per quanto riguarda la ridotta tossicità ed il limitato impatto ambientale: questi prodotti, e quelli simili, si degradano rapidamente a contatto con il suolo e terminano la loro azione poche ore dopo che sono stati diffusi nell’ambiente.
Altre varietà vegetali, come mais, soia, barbabietola da zucchero e riso, sono state rese invece resistenti a questi erbicidi o ad altri con analoghe caratteristiche eco-tossicologiche favorevoli.


La resistenza ai virus

Oltre agli erbicidi, l’agricoltura moderna fa uso di altri composti chimici, chiamati fitofarmaci, che vengono sparsi sulle coltivazioni per impedire che siano danneggiate dagli insetti, dai parassiti e dai microrganismi fitopatogeni (che causano cioè malattie delle piante). Nessuna di queste sostanze però può difendere le piante dai virus vegetali. Alcuni di questi virus sono un vero flagello per le colture: interi raccolti di pomodori, per esempio, vanno perduti ogni anno a causa del virus del mosaico del cetriolo che attacca sia la pianta che la bacca, distruggendole in pochi giorni.
Oggi questi danni possono essere finalmente limitati grazie all’uso delle biotecnologie che hanno permesso di scoprire le modalità di infezione dei virus e di sviluppare delle tecniche per contrastare le virosi.
Sono stati sviluppati ben tre approcci diversi, ognuno dei quali si è rivelato utile.
Il primo consiste nell’introdurre nella pianta il gene del ‘capside’, che è il rivestimento (innocuo e non tossico) del virus: in questo modo l’agente patogeno “crede” che la pianta transgenica sia già infetta ed evita di attaccarla. Un secondo metodo si basa, invece, sulla possibilità di bloccare la produzione delle proteine virali all’interno delle cellule della pianta, introducendo un RNA (un acido nucleico parente del DNA) “complementare” a quello del virus, in modo che si leghi a quello virale impedendo l’avvio della malattia. Un terzo metodo, infine, sfrutta un acido nucleico presente nel virus che attenua la malattia: lo si inserisce nella pianta e, nel caso questa venisse attaccata, i sintomi della malattia sarebbero più blandi, senza danni per l’agricoltore.
Le sperimentazioni di queste tecniche stanno dando buoni risultati. Prendiamo il caso del pomodoro San Marzano: è un ortaggio condannato all’estinzione a causa di una malattia causata dal virus mosaico del cetriolo. Questo ‘oro rosso’ è stato modificato geneticamente attraverso l’inserimento di un frammento del capside del virus. Le piantine geneticamente modificate sono resistenti e hanno mostrato di essere uguali in tutte le altre caratteristiche alle piante ‘normali’: gli esami a cui sono state sottoposte dimostrano che non vi sono differenze nel gusto, nel colore, nella forma, nelle qualità alimentari rispetto ai pomodori San Marzano non modificati.


Contro gli insetti nocivi

Ogni anno circa il 13% della produzione agricola mondiale viene divorato dagli insetti, che rappresentano, di conseguenza, un enorme problema per la coltivazione delle specie vegetali e per l’alimentazione. La presenza degli insetti viene ridotta con l’uso di composti chimici, ma queste pratiche causano numerosi problemi: per una lotta efficace sono infatti necessarie dosi elevate di insetticidi, il che comporta un alto uso di sostanze chimiche nell’ambiente.
Le biotecnologie hanno permesso di ottenere piante di patata, mais e cotone capaci di ‘autoproteggersi’ dall’attacco di insetti nocivi, grazie a un gene del Bacillus thuringiensis (Bt), comune microrganismo del terreno. Questo gene abilita la pianta a produrre una sostanza tossica (tossina Bt) che causa la morte della piralide, un insetto che distrugge le coltivazioni di mais, divorandone gli steli dall’interno. La proteina Bt è tossica solo per un ristretto gruppo di insetti e innocua per gli insetti utili e la flora, gli animali e l’uomo: non a caso, i preparati commerciali di questa molecola sono già ampiamente utilizzati come bioinsetticidi da oltre trent’anni, anche nell’agricoltura biologica.
Proteggendo le piante, questa modificazione genetica offre importanti benefici anche alla salute umana. La piralide, infatti, forma gallerie all’interno della pianta e rosure sulle pannocchie: in queste si insediano particolari funghi che producono micotossine, sostanze cancerogene responsabili di tumori al fegato e ai reni, e strettamente correlate anche con l’insorgenza di tumori all’esofago. Le piante Bt sono protette dalla piralide e hanno livelli di micotossine molto più bassi delle piante tradizionali come conseguenza della minore infezione fungina.
Anche alcune varietà di patate (coltivate negli Stati Uniti e in Canada) sono state modificate per proteggersi dalla dorifora, l’insetto che causa le più ingenti perdite per questa coltivazione, con sistemi analoghi a quelli del mais.
Grazie all’aumento dell’estensione di colture geneticamente modificate, nel 1998 gli insetticidi usati su mais, cotone e soia sono diminuiti del 3,5% rispetto al 1997.



Le biotecnologie in sintesi


DNA, geni, genoma

Tutte le caratteristiche ereditarie di un organismo (come il colore degli occhi, quello della pelle, ma anche l’altezza) vengono trasmesse dai genitori ai figli e questo trasferimento è possibile grazie ai geni. I geni sono sequenze di una sostanza chiamata DNA (la sigla, in inglese, dell’acido desossiribonucleico), contenuta nei cromosomi all’interno del nucleo delle cellule, e contengono appunto le informazioni ereditarie. L’insieme di tutti i geni di un essere vivente è il genoma: una grande enciclopedia, costituita di volumi (cromosomi) e paragrafi (geni) nella quale sono contenute tutte le informazioni che servono allo sviluppo e alla vita dell’organismo, in pratica il suo ‘manuale di sopravvivenza’. Quando una cellula si divide per riprodursi, questa enciclopedia viene copiata e lasciata in eredità alle nuove cellule. Ogni specie vivente dispone di una enciclopedia diversa e ogni individuo della specie ne possiede una versione personalizzata. Però il linguaggio con cui è scritta (il codice genetico) è universale: tutti gli organismi viventi, infatti, anche se dispongono di genomi molto diversi, li hanno scritti tutti nel medesimo linguaggio. Questo fatto ha permesso che, nel corso dell’evoluzione, avvenissero scambi di geni anche fra individui appartenenti a specie molto diverse tra loro. Ciò che distingue un organismo da un altro, e una specie da un’altra, è la presenza di geni specifici, il numero complessivo di geni e la loro diversa combinazione e il modo in cui interagiscono tra loro. Per fare alcuni esempi, il numero di geni (paragrafi) presenti nei batteri è di circa 4.000, mentre le piante ne possiedono circa 30.000 e l’uomo circa 40.000. Molti geni sono comuni a quasi tutti gli organismi: le emoglobine, per esempio, si trovano anche nei batteri e nelle piante: quelle dei batteri contengono un unico gene, mentre quelle di un organismo complesso come l’uomo ne possiedono dieci.


Le proteine, gli enzimi

Il DNA, la sostanza di cui sono costituiti i geni, di per sé non ha alcuna funzione diretta, così come non l’hanno le lettere che compongono il testo di un libro, a meno che non siano lette. Per svolgere una funzione, il DNA deve essere dunque ‘letto’ e la cellula dispone appunto di un meccanismo apposito per farlo: si tratta delle proteine, molecole (cioè sostanze chimiche) complesse. Se un capitolo dell’enciclopedia-genoma è dedicato al modo di “digerire” uno zucchero come il glucosio, la cellula legge i diversi paragrafi (geni) di quel capitolo attraverso una serie di enzimi (che sono un tipo particolare di proteine) che la rendono capace di digerire il glucosio e di trasformarlo in energia. Ogni proteina è chiamata a svolgere una specifica funzione biologica nella cellula: nel nostro caso, vi saranno diversi enzimi che per passi successivi trasformeranno glucosio in sottoprodotti, ricavandone energia.

Ogni organismo contiene un grande numero di geni, le piante circa 30.000, l’uomo circa 40.000.
Questi geni vengono tradotti in proteine che svolgono i “lavori” necessari a far vivere una cellula.


L’ingegneria genetica

È un insieme di tecniche che permette di modificare il DNA: consente cioè di intervenire sul “manuale di sopravvivenza” di un individuo, così da correggere, aggiungere o togliere alcune caratteristiche. Con l’ingegneria genetica è per esempio possibile impedire che un organismo produca una tossina (cioè una proteina tossica, nociva), oppure inserire un gene che consenta di resistere a una malattia o, ancora più semplicemente, sostituire una copia di un gene che non funziona con una funzionante. Quando queste tecniche vengono usate per modificare un organismo al fine di produrre effetti utili, prendono il nome di ‘biotecnologie genetiche’ e l’organismo ottenuto si dice ‘geneticamente modificato’.


Che cosa si intende per ‘OGM’?

Un organismo geneticamente modificato (OGM) è un organismo nel quale viene inserito un gene di un’altra varietà o di un’altra specie, ma anche quell’organismo in cui un gene, già presente, è stato modificato tramite tecniche di ingegneria genetica. Più precisamente (e secondo la terminologia ufficiale) il termine OGM va applicato agli organismi nel cui DNA sono state provocate variazioni mediante processi diversi da incroci o ricombinazione genetica. La legge stabilisce anche che non sono considerati OGM gli organismi ottenuti ‘fondendo’ in laboratorio cellule appartenenti a specie diverse, o il cui DNA sia stato modificato impiegando prodotti chimici oppure fisici (come raggi X e raggi gamma) che causano mutazioni genetiche. Si deve sottolineare che, in questi ultimi casi, la struttura o la sequenza del DNA di un individuo risultano modificate in modo casuale. Un prodotto ottenuto con queste tecniche è per esempio il grano ‘Creso’ (varietà di grano duro impiegata largamente dagli agricoltori italiani da alcuni decenni), costituito trattando con i raggi gamma altre varietà di grano: si è calcolato che verso la metà degli anni ’80 circa un quarto degli spaghetti prodotti in Italia fosse ottenuto da farina derivata da questa varietà ‘naturale’ di frumento.
È quindi considerata OGM una pianta di frumento che contiene un gene modificato attraverso l’ingegneria genetica, mentre la pianta di frumento non è considerata OGM se lo stesso gene o l’intero genoma è stato modificato con altre tecniche, come nel caso della varietà Creso. In sintesi, ciò che identifica un OGM è solo la ‘tecnica’ con la quale è stata effettuata la modificazione: due piante identiche possono essere l’una OGM e l’altra ‘naturale’, non OGM, solo perché ottenute con metodiche diverse.



Per saperne di più. La regolamentazione delle biotecnologie


Prevenzione dei rischi e sicurezza degli OGM

In tutti i Paesi occidentali sono in vigore severe misure di autorizzazione e controllo sullo sviluppo e l’impiego degli OGM. Le norme per la sicurezza delle biotecnologie sono tutte di natura precauzionale e fanno costante appello alla necessità di accurate valutazioni di rischio prima di intraprendere attività di ricerca e sviluppo, di produzione e/o messa in vendita dei prodotti ottenuti con l’impiego delle moderne tecnologie biologiche.


La regolamentazione della sicurezza a livello internazionale

Nei Paesi dotati di solide strutture tecniche di verifica e controllo (ad esempio gli Stati Uniti, il Canada, il Giappone) è prevalso il criterio di valutare l’efficacia e la sicurezza d’uso dei prodotti, senza particolare attenzione alle tecnologie usate per ottenerli. Negli Stati Uniti, in particolare, la verifica dei requisiti di sicurezza dei nuovi vegetali e la loro autorizzazione è affidata a tre organismi e agenzie federali: l’USDA (United States Department of Agricolture), il ‘ministero dell’agricoltura’ americano; la FDA (Food and Drug Administration), l’ente responsabile del controllo di alimenti e farmaci; la EPA (Environment Protection Agency), l’agenzia federale per la protezione dell’ambiente.
Nella valutazione degli OGM ha avuto una grande importanza il lavoro del Group of National Experts (GNE) on Safety of Biotechnology, che ha operato per l’Organizzazione per la Cooperazione e Sviluppo Economico (OCSE). I criteri e principi di sicurezza elaborati da questo gruppo hanno costituito la base di partenza per la redazione di un Protocollo internazionale di biosicurezza (il cosiddetto ‘Protocollo di Cartagena’, poi firmato a Montreal nel gennaio 2001) nell’ambito dell’ONU. L’obiettivo principale del protocollo è quello di consentire ai Paesi in via di sviluppo di mettere a punto le misure da adottare per l’impiego sicuro delle biotecnologie e dei prodotti che ne derivano.


La regolamentazione della sicurezza nell’Unione Europea

A differenza degli Stati Uniti, in Europa è prevalsa l’opzione di imporre per legge “regolamentazioni di tecnologia”, collegate a meccanismi di notifica e autorizzazione sia nelle fasi di ricerca che in quelle produttive.
In termini di efficacia nel garantire i necessari livelli di sicurezza, i due diversi approcci (nordamericano ed europeo) non hanno messo in luce significative differenze: la principale differenza oggettiva è di natura burocratica e amministrativa e si manifesta nei tempi più lunghi delle procedure adottate dall’Unione Europea per l’autorizzazione degli OGM a uso agricolo e alimentare.
Le principali norme dell’Unione Europea sul settore agroalimentare sono: il Regolamento 258/97 per la vendita dei cosiddetti “Novel Foods”, cioè i “nuovi alimenti” ottenuti con materie prime derivate da organismi geneticamente modificati; la Direttiva 2001/18/CE sull'emissione deliberata nell'ambiente di organismi geneticamente modificati (in particolare le sementi e i materiali di riproduzione vegetale) che supera la precedente Direttiva 90/220/CEE .
Queste norme sono redatte nel pieno rispetto degli orientamenti internazionali in materia di sicurezza agricola, ambientale e alimentare, ma sono state finora soggette in modo eccessivo alle decisioni di natura politica. In particolare la Direttiva 90/220/CEE è stata di fatto bloccata per molti anni; la recente Direttiva 2001/18/CE, che la sostituisce, intende semplificare le procedure e attribuire maggiore importanza alle valutazioni scientifiche espresse in sede comunitaria. Tuttavia alcuni Paesi membri hanno espresso l’intenzione di non approvare la commercializzazione di nuovi OGM prima che siano adottati ulteriori regolamenti.
Il Regolamento 258/97, sulla vendita di nuovi alimenti, stabilisce che i prodotti e ingredienti alimentari derivati da OGM non devono presentare rischi per il consumatore; non lo devono indurre in errore; non devono creare svantaggi nutrizionali, nel caso vadano a sostituire prodotti o ingredienti tradizionali.


La ‘equivalenza sostanziale’


Il Regolamento 258/97 sui ‘Novel Foods’ adotta come elemento discriminante la nozione di “equivalenza sostanziale”, accettata a livello internazionale: due alimenti (uno tradizionale e l’altro ottenuto con materie prime di derivazione biotech) sono considerati sostanzialmente equivalenti quando non presentano alcuna differenza dal punto di vista nutrizionale, organolettico e della sicurezza.
In alcuni Paesi dell’Unione Europea si chiede invece di considerare ‘discriminante’ lo stesso impiego delle biotecnologie nella produzione alimentare: basta che un solo ingrediente, additivo o aroma sia ottenuto (anche casualmente o parzialmente) da materie prime geneticamente modificate perché i due alimenti non siano più considerati equivalenti. Di conseguenza, le autorità nazionali di controllo hanno difficoltà a certificare l’equivalenza sostanziale di tutti gli alimenti loro sottoposti, in funzione delle diverse letture del Regolamento operate dai singoli Stati, e si crea una diversità di applicazione delle norme comuni a livello nazionale.


In Italia. Le norme per l’immissione di OGM nell’ambiente

Il Decreto legislativo n. 92 del 3 marzo 1993, che recepisce la Direttiva 90/220/CEE sull’emissione deliberata nell’ambiente degli organismi geneticamente modificati, prevede una valutazione preventiva di rischio prima di ogni rilascio nell’ambiente di un nuovo tipo di OGM e che nessun rilascio possa essere effettuato senza il via libera del Ministero della Salute.
Nei casi in cui le conoscenze scientifiche sul tipo di modifica genetica effettuata e sull’OGM che ne viene ottenuto richiedano ulteriori approfondimenti tecnico-scientifici, prima di concedere l’autorizzazione al rilascio deliberato a scopi di ricerca e sviluppo, il Decreto legislativo prevede che la Commissione interministeriale di coordinamento per le biotecnologie (CIB) possa chiedere il parere del Comitato nazionale per la biosicurezza e le biotecnologie e anche quello del Consiglio Superiore di Sanità. Durante la fase di rilascio deliberato dell’organismo geneticamente modificato, la CIB effettua ispezioni nel sito del rilascio per verificare: la conformità degli esperimenti a quanto notificato; gli effetti dell’organismo geneticamente modificato sull’ambiente circostante; le pratiche agronomiche utilizzate; i trattamenti dopo il raccolto dell’area interessata; la conservazione o l’eliminazione dell’organismo geneticamente modificato.
Al termine dell’esperimento di rilascio, il privato o l’impresa che ha ottenuto il nulla osta alla ricerca sull’OGM deve presentare una relazione conclusiva sull’esperimento, sulla base di linee guida elaborate dalla CIB, mirata sulla valutazione dell’impatto ambientale e della sicurezza: questa valutazione è uno degli elementi necessari per richiedere l’autorizzazione all’immissione sul mercato dell’OGM in questione.


In Italia. L’autorizzazione all’impiego di OGM nell’alimentazione


Per quanto riguarda l’attuazione in Italia del Regolamento 258/97/CE concernente l’immissione sul mercato di nuovi prodotti alimentari derivati da ingredienti, aromi e additivi ottenuti da materie prime geneticamente modificate, è stata istituita un’apposita Commissione interministeriale di coordinamento per la valutazione delle notifiche ai fini della commercializzazione dei nuovi prodotti e nuovi ingredienti alimentari. Questa Commissione è inserita nel ministero della Salute. A questo organismo competono le valutazioni sulla sicurezza d’uso nell’alimentazione umana o animale degli organismi geneticamente modificati e dei loro derivati.
Chiunque intende mettere in vendita nell’Unione Europea un OGM o un alimento derivato da OGM o i suoi derivati deve quindi presentare domanda di autorizzazione allo Stato membro sul cui territorio vuole vendere per la prima volta questi prodotti, inviando contemporaneamente copia della richiesta alla Commissione Europea. La documentazione presentata deve contenere una serie di dati scientifici per la verifica della sicurezza d’uso del prodotto e - nel caso di prodotti ottenuti tramite l’applicazione delle tecniche del DNA ricombinante (le biotecnologie) che contengano o siano costituiti da OGM - la valutazione dei rischi per l’ambiente e, se del caso, la decisione di autorizzazione di immissione sul mercato corrispondente alla parte C della Direttiva 90/220/CEE.
La domanda deve contenere informazioni tecnico-scientifiche che dimostrino che il nuovo alimento presenta le garanzie richieste dal Regolamento 258/97/CE, nonché una proposta di etichettatura del prodotto: questi elementi devono permettere all’autorità competente dello Stato destinatario della domanda la valutazione sulla sicurezza d’uso del prodotto.

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